La prima volta che ho incontrato la poesia di Andrea Simi e di Antonio De Luca è stato alla presentazione a Napoli, presso la Fondazione del Mediterraneo, del libro, scritto a quattro mani, Adespota. Ho ascoltato la lettura di poesie particolari, straordinarie per suono e per immagini, sensazioni ed emozioni, che attraverso quei suoni si percepivano e, devo dire, che è stato amore al primo incontro per una poesia mi è subito entrata dentro, forse anche perché, venendo da studi classici, ho sempre avuto per il mondo antico un particolare amore. Qualche anno dopo ho rincontrato i nostri due poeti a Ponza, nell’isola di Circe, tanto presente nei versi di De Luca, che lì vive una buona parte dell’anno, che lì aveva la casa del nonno da bambino, pur essendo lui nato a Napoli. Ma, in quel luogo viveva “il seno materno salato” della madre, in attesa sul balcone del ritorno del padre capitano. E non posso fare a meno di ricordare le parole di Andrea Simi, che sempre a Ponza, una sera, confidava la sua emozione ogni volta in cui ritornava nell’isola e ne avvistava la sagoma a distanza. In questo lungo periodo di ritiro, dovuto all’epidemia che ci ha fatto stare con il fiato sospeso, ho riletto di Simi Sui sentieri pescosi, che ripercorre i possibili itinerari mediterranei di Ulisse e che traduce in modo eccellente le parti marine dell’Odissea; ho riletto Adespota, dal titolo indovinatissimo per una poesia tanto libera, una poesia-racconto, che, quasi senza punteggiatura, ci narra il mondo antico, cui già accennavo prima, ci narra il mare, il Mediterraneo in particolare, il viaggio di Odisseo e dell’uomo, l’inquietudine e la forza del poeta.
Le poesie di Adespota non recano di volta in volta i nomi dei due poeti, rintracciabili solo in un indice finale, ma, in realtà, ogni poesia è come se appartenesse ad entrambi e perfino nel libro successivo Navigare la rotta, scritto dal solo De Luca, in coda al testo, Antonio dice all’amico poeta “Questo libro appartiene anche a te”; sì, perché di fatto i due poeti, di cui voglio celebrare la poesia, hanno una visione comune, quella del mondo della grecità, che De Luca confessa di aver studiato proprio dietro sollecitazione di Simi; e la grecità, si badi bene, non è un tempo ben circoscritto, un tempo finito, morto, come spesso stupidamente si dice; la grecità è un modo di sentire, di essere, che appartiene a tutto il Mediterraneo, nel quale fu diffusa dall’ellenismo, perché a volte la storia aiuta a costruire unità e sintesi inimmaginabili. La grecità è un universo di sentimenti, primo fra tutti quello della bellezza, della ricerca di un’armonia perduta, più che mai urgente nel disarmonico momento attuale; è il luogo-non luogo dell’uomo con tutta la sua umanità, prima ancora che a Roma si parlasse di humanitas.
I mondi poetici di De Luca e di Simi, dunque, vivono in sintonia e in consentaneità per quanto detto ma anche perché il vero protagonista è per entrambi il mare. Nipote e figlio di lupi di mare Antonio De Luca, peraltro insaziabile e inquieto viaggiatore; amante del mare, che attraversa navigando appena può, Simi. Entrambi, dunque, hanno il mare nelle vene, il mare che, se vissuto in maniera totale e non come magari facciamo noi in estate da villeggianti, oltre a creare il senso dell’esplorazione, della scoperta, della meraviglia, fa di un uomo un nomade dentro, dilata i confini di ogni luogo, anzi elimina spesso i limiti di spazio e tempo, e, più di ogni altra cosa, fa avvertire il nulla e il tutto, l’essere Nessuno e il senso della storia e propria divinità oltre la storia.
Leggere queste poesie, come leggere quelle contenute in Navigare la rotta, che è poi la continuazione ideale di Adespota, ci riporta, anzi ci racconta in versi, facendoci entrare fin nelle sue pieghe più intime, la fascinosa storia del Mediterraneo, restituendoci il senso di quello che è sempre stato, ponte tra Occidente e Oriente, miraggio e sogno per un uomo, che è migrante sempre, per un Ulisse che sogna il ritorno a Itaca; e Itaca, più volte citata, come del resto anche Ulisse, in cui tutti ci riconosciamo, è la fonte, la radice, il “seno salato” della madre, che attende, è il padre che torna.
Due poeti, che con una poesia che si è nutrita essenzialmente di ritmo greco, ci restituiscono il mondo a cui apparteniamo, anche se abbiamo perso il senso di questa appartenenza; un mondo, che ci appartiene tutto intero, che ci parla di quanto abbiamo perso e che dobbiamo assolutamente ritrovare, insieme al piacere di guardare i nostri “ulivi secolari dal tronco contorto e con il sangue nelle radici”, di camminare in una vigna, di gustare mediterraneamente un calice di vino, che per la vicinanza al mare, ha uno straordinario retrogusto salino; insieme al recupero di un eros appassionato, che si rivela in ogni atto, in ogni sentire, perfino nella scrittura forte, essenziale, “senza smorfie letterarie”, come dice Predrag Matvejevic, nella Prefazione ad Adespota, ma melodiosa, aggiungo io. La poesia nasce nel mondo greco primitivo come canto, poi ha perso la parte musicale e ha cercato, in tutta la nostra tradizione letteraria, di incorporarla nel verso e nella parola; cosa che la poesia di De Luca e di Simi, a me sembra, riesce a fare in maniera del tutto naturale, nutrita com’è da voraci e ardenti letture poetiche; e, dunque, la musica è nel corpo di ogni parola, di ogni verso, delle tante espressioni allitteranti, nelle tante reminiscenze poetiche; una melodia, un ritmo che esprimono veramente nel modo più efficace le immagini di un mondo mitico, che non appartiene al passato o non solo al passato, ma che è rivelatore di quella verità che è dentro ognuno di noi, prima e oltre la ragione, come asseriva Vico, e che non sempre trova le parole e le immagini per emergere.
Ma, in questo breve excursus poetico non può mancare uno sguardo a Le stanze d’inverno, ultima fatica poetica di De Luca, in cui passato e presente si confondono, dipanando ricordi e immagini, dalla madre, che piange suo padre al padre del poeta, che “nel suo delirio” oggi chiama il figlio e nella sua solitaria vecchiaia chiede di essere liberato dalle “pietre intorno”; immagini, in cui la giovinezza e il dolore si intrecciano a cantare la vita, nella sua pagana sacralità, nella sua inesausta regione dell’essere: la regione della memoria, luogo fertile e privilegiato, che non conosce confini e che dalla “casa sopra le onde”, “l’amore venuto dal mare” di una fanciullezza mai dimenticata viaggia “nella luce / dei pomeriggi d’inverno”, folgorati da “il vecchio e il mare”. E allora, la stagione trascorsa diviene lo specchio, in cui ritrovare “il tempo dell’origine”, quello in cui, maestoso, regnava ancora il Caos, la divina follia, la poesia che “può salvare”. E, dunque, il “ritorno alla casa” è il ritorno ad Itaca, dove ciclicamente l’inizio incontra la fine e poi un nuovo inizio; e il canto del mare e del vento “che penetra / e fa perdere” si scioglie all’infinito.
Del resto, a questo servono i poeti: a restituirci la parte migliore di noi, la bellezza, la passione e le emozioni, che ci rendono vivi e veri e non falsi e virtuali.
Maria Gargotta
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