Nemesis

Nemesis
Dea della sorte

terrore
invade il cuore
dei puri

dispersa è la gente
disperso è il verso

abbandono

tutto scompare

sventurati
orrore orrore

le rive
ci separano
la terra implode

tutto
più non basta

i corpi
ci lasciano

ultimi

le parole pure
di altri tempi

più non basta il mare
così il sangue degli avi

disperazione.

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La presenza del padre

E grida
questo nome

del padre di Nessuno
è la tua voce

gridalo alle mie ossa
a quest’ essere fatto primitivo

di assenze
e isole destinate

chiamami da ogni tempo
col nome che mi desti

chiamami per sempre

non esiste distanza tra i vivi e i morti
l’essere nudo e la parola

ha la forza invincibile
la parola dei morti

fa che io viva ogni ora
ogni istante

ed essere commosso
in questo ultimo
approdo di pietra

amare e sognare
tremare e sperare

ci vuole tempo
per vivere

a sorreggermi
nella fuga

così la vita
l’ho pensata

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La vigna di Odisseo

Il Fieno
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Nei Silverio di Ambrosino un Santo umano e terrestre

L’anno 2020 verrà ricordato dall’isola di Ponza come il primo nella sua storia, quando il 20 giugno, ricorrenza del santo patrono San Silverio, ci sarà l’assoluta assenza di ogni festeggiamento in onore del santo.

Tutto è sospeso in un assordante e triste silenzio.

Considerata la grande tragedia umanitaria che il mondo sta vivendo, condivido questo momento e ne faccio motivo di pensiero e riflessione.

Ma voglio anche dire che una grande tristezza sembra attanagliare la popolazione dei fedeli e non solo.

Parlando con amici di questo triste e preoccupante tempo che l’umanità vive, mi vengono in mente vecchi ricordi di emozioni vissute in questi giorni di festa e riflessioni si aggirano inquiete per la mia memoria.

I San Silverio che ricordo e mi appartengono, sono immagini di memorie lontane, fuori da questa imperante realtà dell’oggi e degli ultimi anni.

Questa realtà che oggi tutto vige, domina e ammalia, è a mio avviso distruttiva e nichilista. È questo un tempo fuori da ogni ragione critica.

Una realtà che fa pensare e riporta ad un’ancestrale memoria, ad un’etica e ad una religiosità vissuta nel dopoguerra e oltre, dalla mia generazione e non solo.

Uomini di mare e di ogni ceto sociale che abitavano un’isola martoriata dalla guerra, ma che sempre esprimeva una certa dignità, una sua cultura, un suo essere sociale e umano.

Un’isola che navigava per il Mediterraneo, e si nutriva della sua cultura millenaria.

Di questa triste e volgare realtà dell’oggi, personalmente non ho nulla a che fare e condividere, né mi mischio a servi e padroni d’occasione.

Preferisco ad essa, una vita in disparte da tutte le forme di religiosità, che siano solo apparente festosità, quasi sempre legittimatrici di ogni eccesso, eticamente ed esteticamente degradanti, naturalmente prive di ogni dimensione religiosa e culturale.

Un bordello allargato mi verrebbe da pensare, un carnevale fuori luogo.

Il mio San Silverio, ma preferisco semplicemente Silverio, rimane un uomo diverso da quello che oggi viene rappresentato e voluto da questa chiesa e popolazione nostrana evidentemente in crisi, e non solo di valori morali, naturalmente con grandi eccezioni.

Una chiesa che dà l’idea di un abbandono materiale e spirituale.

Una comunità isolana nella sua grande maggioranza allo sbando in tutte le sue forme.

Silverio, un uomo semplice, arrivato al potere papale di Roma che, in un momento storico ben definito, per assoluti motivi politici (e quanti uomini nel mondo di oggi e di sempre, per motivi politici vengono zittiti e mandati in esilio), viene inviato a Ponza, dove, come dice la storia, viene fatto morire di fame e il suo corpo scomparire e nulla più si sa.

Praticamente un desaparecido dell’antichità: chi fa pensare fa paura ai poteri.

Che triste destino queste isole nel mondo. Le isole dove la vita è cresciuta e si è evoluta, sono fatte dal potere di sempre, luoghi di esilio, di privazione e di barbarie.

Questo Silverio, privo di ogni libertà, vissuto in esilio, in preda a malattie e fame, e soprattutto a solitudine e abbandono, mi affascina, mi è amico e maestro, ma soprattutto mi fa riflettere.

Di questo Silverio uomo e peregrino, ne faccio un simbolo di vita, che ha molto da dire e da insegnare. Un uomo a cui viene tolta la libertà e muore privo di ogni diritto.

Questo Silverio laico a me piace molto, e allora spesso mi faccio accompagnare intorno alla terra, nelle viscere dell’ignoto e nel pensiero indomabile.

Silverio lo posso pensare come la dea Atena omerica, colei che accompagna e protegge nel viaggio Ulisse. Noi ulissidi moderni, vissuti anche e soprattutto tra le gioie della libertà e delle bellezze che le isole offrono, ma anche spesso ulissidi naufraghi che vivono in una lentezza di esistenze di solitudini e spesso di dolore, come la vita pretende. Soli col mare intorno e destinati ad un perenne non sempre dolce naufragare.

Quale uomo prende Silverio come compagno nel suo cammino? È l’uomo pavesiano destinato ad una vita di solitudine. È l’uomo camusiano che trova nella sua voglia di libertà, è questo il suo destino (Camus), l’inesorabile inferno della solitudine e del dolore di una vita spesso di lotte.

Silverio è il compagno di un uomo che vive di sacrifici, che lotta per esistere e per liberarsi.

È bello pensare ad un Silverio che naviga con me sopra una barca fatta di rocce, di città e paesi, che vanno alla deriva sopra un mare chiamato destino, e che aiuta a navigare a vivere a sperare.

Silverio è così. È il compagno francescano, così come è ben rappresentato sotto la croce con San Francesco, sull’altare della chiesa a lui dedicata nella città di Bologna.

Silverio e il poverello d’Assisi, due uomini per tutti. Entrambi possono essere i compagni di laici, atei, poeti e filosofi, religiosi e uomini di ogni fede e credo.

Ho sempre considerato l’etica al di sopra della sfera fideistica. Ma un Silverio, come oggi viene visto vissuto e rappresentato, sicuramente non appartiene né a chi lo mise a fianco di Francesco d’Assisi, né tanto meno a me e a quanti hanno e vivono una religiosità fuori dalle circostanze di una fede giustificatrice, priva del minimo senso di ragione.

Né appartiene ad una forma di paganesimo o cristianità evangelica. E questo fa riflettere in una società dove si perdono ogni giorno idee e pensieri per un mondo migliore.

Forse le vite dei Santi, che dovrebbero far riflettere, come quelle dei filosofi e dei poeti non bastano più a suggerire e consigliare. Si preferiscono quelle dei banchieri, della finanza falsamente risolutiva.

Ma un piccolo evento quest’anno a Ponza mi ha colpito positivamente, e mi ha fatto molto pensare, anche con un certo inatteso entusiasmo.

Amo e vivo di arte, è l’arte in tutte le sue forme che mi fa vivere. Una forma d’arte che non mi aspettavo ho incontrato per strada sulla rena della spiaggia del porto. Forse esiste ancora un Silverio che resiste e fa riflettere, ho pensato. Un Silverio che, oltre a chiedere preghiere, chiede qualcosa di altro.

Oggi più di prima, non basta solo pregare, come ben rappresenta il cineasta cileno Aldo Francia nel 1971 con il film “Non basta più pregare” ma anche l’apostolato del gesuita Bergoglio, salito inaspettatamente a capo della chiesa cristiana, che predica l’agire.

Come mi spronava negli anni del collegio barnabita un altro gesuita, l’allora cardinale Martini, che spesso ebbi come padre spirituale. Mi entusiasma artisticamente l’opera di Francesco Ambrosino.

Francesco dalla sua giovane età ripensa a immagini di un Silverio umano e terrestre, ancora pensatore che giudica e ammonisce.

I Silverio di Francesco disegnati e scolpiti con uno spirito profondo e una lucida mente di chi sente e deve dire qualcosa. Un pensiero sicuro e potente, prova di una coscienza profonda.

Il Silverio di Francesco ha tratto essenziale, quasi come versi ungarettiani. Questi Silverio pongono Francesco alla sua prima rappresentazione pubblica e dimostrano che l’autore è un artista libero alla ricerca di
un pensiero puro e primitivo, rivoluzionario come un artista deve pensare ed essere. Un artista a cui consiglio di intensificare e promuovere la sua arte di strada, e non solo a Ponza.

Francesco colloquia con Silverio e, da questo intimo dirsi, restituisce l’origine e l’essenza del Silverio uomo, primitivo e vero.

È un Silverio che rimane nella nostra memoria, che persiste e medita in un’etica che oggi va scomparendo e più non ci appartiene, ma che ancora protegge e fa riflettere sul destino dell’uomo. Un uomo solo, esiliato, fuori da ogni potere, fuori da ogni classe e divisione di una società che lui sicuramente non pensava né auspicava.

Il Silverio di Francesco Ambrosino, così come il Silverio dell’artista Umberto Berrino, è un uomo vicino a noi, uguale a noi, che ammonisce e predica, un uomo fatto santo che incalza la realtà e che ai miracoli crede poco.

Un Silverio che predica un altro tipo di amore, altra fratellanza, una giustizia e una libertà. Una libertà da condividere per il bene comune, davanti ai sogni e alle tragedie della vita.

Come un poeta ispirato solo dal suo demone, Francesco regala attraverso linee e un disegno apparentemente disfatto, sopra materiale da recupero, trovato ai bordi del dimenticatoio, immagini di un Silverio vero, originale, primitivo, che parla, che dice qualcosa.

Sicuramente questo Silverio, così visto dall’artista Francesco Ambrosino, è un uomo che può appartenere e non lascia indifferenti.

Francesco pone un grande cuore all’immagine del Santo Silverio, lo fa risorgere, lo pone tra la gente, gli ridà l’autorevolezza del verbo. Mi piace al di là del suo essere stato dichiarato santo.

Condivido con questo Silverio la presenza, la solitudine e le difficoltà di un mondo che ancora divide in buoni e cattivi, in poveri e ricchi, che porta miseria e guerre. Un mondo dove gli uomini ancora annegano in mare per fuggire dalla fame, dalle guerre e dalle dittature, non solo politiche ma soprattutto economiche.

Uomini che vanno in esilio anche solo per resistere. Uomini che fanno fatica a vivere, privi spesso di gioie e fortuna. Un mondo alla malora che non appartiene né a me, né a Silverio, né a Francesco.

Francesco ha scavato nel suo io, nel suo baule di memoria, e ha scoperto una nuova meraviglia, una bellezza inconsapevolmente aristotelica, la figura di un cielo di stelle, dove incontra un uomo che non rinuncia ai suoi sogni.

“Il bello è la prima manifestazione di Dio” (Plotino). Le figure che lui disegna tra un rock duro e romantico, con spunti di jazz e un barocco volutamente decadente, consegnano a chi guarda un San Silverio amico e compagno di cui abbiamo bisogno per riflettere.

I suoi occhi a volte guardano verso il basso, sono occhi chirurgici, rivoluzionari, ammonitori. Altre volte fissano chi guarda e chiedono risposte.

Gli occhi dei Silverio di Francesco vanno direttamente intorno all’anima, allo spettacolo più grandioso del mare e del cielo, pensando a Victor Hugo. Le cose in questo mondo non vanno bene, e quest’ultima tragedia sanitaria ne è una prova.

Bisognerà modificare comunque l’ordine delle cose. Anche i Santi se ne sono accorti.

La chiesa come collante storico perde terreno. Forse maestra non lo è mai stata.

Il filosofo Comte già ammoniva che la convivenza pacifica, vivere per gli altri, non è soltanto la legge del dovere ma anche quella della felicità. L’uomo deve guardare oltre ogni apparente realtà. È lì che la probabile verità si annida, si conserva un’etica che potrebbe far vivere meglio, che appartiene a tutti. Un’etica fuori dalla fede, che appartiene a tutti gli uomini.

La ricerca di una verità nell’essere umano che la religione ha separato, la politica ha diviso, la ricchezza ha classificato e il destino ha fatto naufragare.

I San Silverio o semplicemente i Silverio di Francesco Ambrosino, artista di strada di un’isola bellissima, sopra una spiaggia che fu un’agorà per generazioni di ragazzi, lo gridano a gran voce. Questo mondo non va. “Ritornare alla conoscenza per il fine di sapere” (Aristotele).

I Silverio di Francesco Ambrosino, a mio avviso fanno pensare, fanno filosofare, come giusto che sia.

da h24notizie.com

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L’analisi di Rita Bosso

Antonio De Luca scrive una pagina bella e intensa sull’isola ai tempi del confino.
L’articolo è stato pubblicato oggi da H24; l’Autore autorizza la pubblicazione su questo sito.
Leggere e ripensare alle parole di Aristotele è tutt’uno: lo storico narra i fatti accaduti, il poeta scrive dei fatti che potrebbero accadere secondo i criteri del verosimile e del necessario.
Per quanto riguarda i fatti accaduti, è possibile che quelli relativi al confino siano già stati completamente narrati; molti dei testimoni diretti sono morti, i pochi superstiti forniscono descrizioni rigorose e perciò scevre da sensazionalismi e da letture ideologiche; gli archivi pubblici e privati sono stati consultati e riconsultati. Cos’altro può venir fuori?
In effetti, dallo scritto di Antonio non emergono notizie sensazionali o inedite; molti dei nomi che cita (Maria Picicco, Temistocle …) sono gli stessi che, un paio di settimane fa, Assunta Scarpati ha rievocato in occasione del Primo Maggio; persino le foto che corredano i due articoli sono state scattate nella medesima circostanza: la visita a Ponza di Palmiro Togliatti. Però il poeta ci regala immagini preziose: il bambino che si solleva sulle punte dei piedi e guarda oltre le sbarre del carcere di Santo Stefano; la donna disponibile a dialogare con mondi e culture lontane (l’Argentina o un confinato piemontese); il paziente del manicomio pre-Basaglia … non hanno nomi e volti e ideologie, appartengono all’umanità, alla capacità di andare oltre (le sbarre, i muri, le parracine).
Lo storico avrebbe qualche remora ad attribuire a Maria la definizione di “partigiana”; il poeta, a ragione, dice che è una “partigiana totale”. Ovvero, secondo Aristotele: “Perciò la poesia è sia una cosa più filosofica sia una cosa più elevata rispetto alla storia: la poesia infatti narra più le cose universali, la storia invece le cose particolari.” 

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Le opere e i giorni

I giorni e le opere
dei tanti di me
vivono in me

le passioni e le regole
i limiti della ragione

viaggiano con me

naufragano
muoiono e rinascono

impossibile di sentire
la voce innumerevole

la luce e la parola

il mio nome
non può essere
che quello di Nessuno

non voglio che essere Nessuno

l’incanto della vita

la mia terra
è l’indicibile mare

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Palmiro Togliatti a Ponza con Maria Picicco, la Madre dei confinati.

Mariano Picicco, come Charles Bukowski, lavora alle Poste ma, come il poeta, ha tutt’altri interessi a cui dedica la vita. E’ soprattutto un musicista. Sono sue le musiche di quel teatro ponzese degli anni ’70 rimasto nella storia culturale dell’isola. Un teatro che, con la regia di Gino Usai, e la partecipazione dei giovani studenti, coniugò magistralmente la cultura rivoluzionaria della beat-generation con la forte presenza della cultura libertaria mediterranea e isolana. Ha dato anche colonna sonora ad alcune mie poesie in lingua araba. Inoltre Mariano ha vissuto per molti anni da bambino le sue vacanze estive tra gli ergastolani sull’isola di Santo Stefano, dove il padre era direttore delle Poste. Esperienza che lo formò dandogli una diversa prospettiva esistenziale, di cui ancora oggi ne parla. Un’esperienza fortissima, educatrice in mezzo ad altri orizzonti. Erano gli anni che al carcere di Santo Stefano si sperimentava una nuova metodologia di recupero. Sotto la direzione di un illuminato Eugenio Perucatti, i condannati vivevano una maggiore libertà e conducevano una vita volta ad un futuro inserimento nella società, una volta liberi. Un carcere che lavorava per il recupero dell’uomo.1 Mariano, unico bambino sull’isola, con questi condannati trascorreva parte del suo tempo, diventò il “loro bambino” e venne coinvolto nelle attività quotidiane del carcere.
Oggi Mariano vive a Ponza, coltiva una vigna e produce per lui e gli amici un vino rosso di antiche tradizioni ponzesi. Ma soprattutto Mariano Picicco è il nipote di Maria Picicco, la cosiddetta “Madre dei confinati” durante il regime fascista, la nonna con cui è cresciuto. A casa di Maria Picicco sono vissuti, hanno mangiato, parlato, studiato e pensato i futuri padri della Costituzione della Repubblica Italiana. Ora Mariano vive e respira per queste alte stanze, dove la luce illumina le pareti e ogni cosa e i pensieri di quegli uomini sono rimasti nell’aria a vivere.

Partendo da sinistra Silverio Picicco,
Nilde Iotti e Palmiro Togliatti

Nella mia casa-rifugio a Punta Fieno, isolata dal mondo, da ogni virus e da tutte le masse, dove sto vivendo in questi tempi di declino, non solo sanitario, l’amico Mariano mi viene spesso a trovare. Qui ci raccontiamo vecchie storie di vita vissuta, così da poter guardare il mondo da prospettive diverse, o almeno pensare e sognare un mondo migliore.
Mariano Picicco vive da artista, oltre ad essere un’importante fonte e voce di una memoria mediterranea isolana e non solo. Penso a Mariano come una biblioteca alessandrina.
La sua vita è piena di accadimenti che lo hanno arricchito nelle virtù e nell’etica e soprattutto nell’arte che lui meglio sa fare: la composizione musicale.
Nella sua famiglia, con il padre e la madre, viveva da sempre la nonna, la signora Maria Picicco. Mariano sin da piccolo stabilì con la nonna un rapporto molto intimo.
La nonna si dedicava molto a lui. La storia di vita di Maria Picicco è molto interessante. Via Canalone, la strada dove viveva, divenne un luogo di grande interesse storico proprio nel periodo del Confino [per un approfondimento, rimando il lettore al mio prossimo libro in uscita: Sandro Pertini, la mia Ponza]. Maria Picicco, dopo appena pochi anni di matrimonio, organizzò una partenza per trasferirsi, con i figli, a Buenos Aires, dove il marito era emigrato da circa un anno. Era tutto pronto: biglietti, valigie e bauli pesanti. Il transatlantico “Oceania” nel porto di Napoli li attendeva per il lungo viaggio. Ma, alla vigilia della partenza da Ponza, ricevette un telegramma in cui le veniva comunicato che il marito Salvatore Picicco era morto. Nessuna altra notizia. A quel punto Maria si trovò di fronte a un bivio: partire sola, con i figli piccoli, verso un continente sconosciuto e con un futuro incerto, oppure rimanere a Ponza e inventarsi una nuova vita. Maria decise di restare a Ponza. Destino volle che il mondo stava per cambiare. Una guerra, che attraversò prima l’Europa e poi ogni altro angolo della Terra, portò a Ponza gli uomini che questa guerra non la volevano. Arrivarono a Ponza, loro malgrado, dall’Italia, dalla Spagna, dalla Francia e dalla Jugoslavia, gli oppositori del regime fascista di Benito Mussolini e del dittatore di Spagna Francisco Franco. Intellettuali, storici, filosofi, uomini e donne di ogni estrazione sociale vennero confinati a Ponza. Maria Picicco dovette inventarsi qualsiasi cosa per portare avanti la famiglia. Iniziò ad affittare qualche stanza e a far da mangiare a questa gente. Tra gli esiliati subito corse voce della cortesia e bontà di questa donna che offriva riparo e pasti e soprattutto un porto sicuro. Maria diventò sempre più importante e presente nella vita degli esiliati. Essendo sarta, provvedeva a cucire vestiti e rammentare biancheria. A volte s’improvvisava anche medico, curando i suoi “ospiti” con erbe naturali come si usava in quel tempo. La sua casa si fece albergo, biblioteca e mensa per comunisti, anarchici e socialisti. Maria ascoltava i loro discorsi e le loro storie, iniziava a vivere i loro pensieri e le loro sofferenze. Prese coscienza della storia del mondo, degli accadimenti feroci che si stavano abbattendo sull’umanità, venne coinvolta dalla cultura di questi uomini.

Un anarchico dipingeva e così Maria scoprì la pittura. Negli anni ’60, alcuni turisti pionieri della selvaggia e onesta Ponza del dopoguerra, acquistarono i suoi quadri un po’ naif. Tra questi, l’ambasciatore Pier Luigi Alverà e il pittore Pietro Tarchetti da Parigi che, nel villaggio di Frontone, appena fuori dal porto, avevano il loro cenacolo artistico.

Maria sposò le lotte partigiane degli esiliati politici, la loro guerra, diventò complice di questi tanto da essere più volte “ammonita” e guardata a vista dalle camicie nere fasciste.
Casa sua, come altre case ponzesi, diventò luogo clandestino di incontri.
Tra queste, ricordo quella di mia nonna Angela Farese De Luca, che fece incontrare la sua prediletta nipote Rita Parisi con l’esule Mario Magri. I due in seguito si sposarono.

Silverio Picicco, Palmiro Togliatti, Angelo Musco, Domenico Cuomo, Maria Picicco, Marisa Malagol, Temistocle Curcio. Sullo sfondo Nilde Iotti

A casa di Maria gli anarchici organizzarono una mensa e una biblioteca. La sua abitazione venne frequentata da Sandro Pertini, Umberto Terracini, Giorgio Amendola e tanti altri.
Gli anarchici le diedero il nome di “Madre”, qualcuno più giovane la chiamava “Mamma Maria”. In seguito, arrivò malconcio da Parigi Pietro Nenni, cui Maria prestò le sue cure e la sua assistenza. Quando Nenni ebbe bisogno di una persona preparata e coraggiosa che portasse lettere e messaggi in codice, pensò a lei. Maria, dall’impetuoso coraggio, divenne staffetta partigiana. Una Ulisse scaltra e affabulatrice, come l’eroe omerico, che lottava per la sua Ponza e la sua libertà. Portava messaggi tra le case dei partigiani, li proteggeva, li nascondeva. Nenni le affidò persino le lettere da fare arrivare a Benedetto Croce a Napoli. Maria le cucì nella giacca del figlio Silverio, allora militare e quindi insospettabile, e lo mandò a casa di Croce. Il filosofo, adottando lo stesso metodo, chiamò una sarta e fece ricucire la risposta per Nenni. Maria fu anche portalettere tra Pertini e Nenni. Sapeva come evitare i controlli delle guardie fasciste, nascondeva le lettere nel ferro da stiro che solo lei sapeva smontare.

Poi la guerra finì. Nessuno di quei confinati che l’avevano conosciuta poteva dimenticare la signora Maria Picicco. Gli esuli del regime fascista diventarono i nobili Padri della Costituzione e continuarono a scriverle. Non potevano dimenticare la madre che aveva condiviso le loro sofferenze di esiliati, privati degli affetti e della libertà primaria.
Gli anarchici le mandavano lettere e fotografie. Sandro Pertini chiedeva al suo amico di Ponza, Avv. Luigi Sandolo, notizie di Maria Picicco, donna dall’invincibile coraggio.

Io non ho conosciuto di persona la signora Maria Picicco se non attraverso le storie di parenti e conoscenti ma credo fermamente che Ella possa appartenere alla letteratura greca. Tra le poesie di Pindaro e la tragedia euripidea e non solo, io intravedo il coraggioso personaggio di Maria che lotta per la libertà e la verità dell’uomo, davanti allo scorrere degli eventi. Maria sfidava il carcere, se la scoprivano poteva succedere di tutto. Lei era Antigone, non temeva.

Negli anni ’50, Palmiro Togliatti con Nilde Iotti e la loro figlia adottiva Marisa Malagoli, vollero conoscere Ponza. A Togliatti, Sandro Pertini e Pietro Nenni dissero che, una volta a Ponza, doveva assolutamente conoscere Maria Picicco e portarle i loro saluti.
Togliatti venne ricevuto dalla locale sezione del Partito Comunista, e chiese ai compagni presenti di voler conoscere una certa Maria Picicco. “E’ mia madre”, rispose commosso il giovane Silverio, casualmente seduto al suo fianco. Senza farsi pregare, andò subito a chiamarla. La madre dei confinati incontrò così Palmiro Togliatti. Si racconta che i due all’inizio si appartarono e i presenti si chiedevano cosa si stessero dicendo.
Temistocle Curcio, allora dirigente della sezione locale del PCI e presente a quell’incontro, invitò tutti al suo ristorante EEA con vista sul porto. Togliatti, per tutto il periodo ponzese, non lasciò mai Maria e i compagni che lo avevano accolto con l’affetto e la stima che si deve ad un uomo di tale ingegno culturale e politico. Il ristorante EEA divenne il loro luogo di incontro in molti pomeriggi estivi. L’EEA, prima che diventasse un ristorante, fu la casa di Pietro Nenni e proprio lì Bettino Craxi volle omaggiare, nella sua venuta a Ponza, uno dei padri del socialismo.

Il compagno Angelo Musco, insieme agli altri iscritti della sezione del PCI di Ponza, organizzò una gita in barca a remi per Togliatti. Con una piccola barca, Togliatti e famiglia visitarono la grotta Azzurra nel villaggio di Santa Maria, la grotta del Core, ma soprattutto le grotte di Pilato, antiche piscine romane. Tra i rematori, a raccontare le bellezze dell’isola, c’era proprio Angelo Musco.

La storia di Angelo avrà un finale drammatico. Lo conobbi casualmente nel manicomio di Miano, vicino Napoli. Lo andavo a trovare spesso, in quanto mi affascinava la sua persona e il suo parlare. Angelo aveva una grande lucidità. Come fosse arrivato lì, non lo immaginavo. Voleva uscire da quella struttura con la nuova legge Basaglia. Angelo era a conoscenza di quello che succedeva a Napoli e in Italia. Voleva sempre notizie del suo amico Temistocle Curcio, di Maria Picicco, di Domenico Cuomo e di altri suoi compagni, ma soprattutto mi chiedeva di Ponza. “Me li devi salutare”, mi diceva ogni volta. Un giorno d’inverno, fuori pioveva, la città aveva un cielo nordico, seduti in uno stanzone tra decine di matti, con un nauseante puzzo di piscio, tabacco e misto a varechina, mi raccontò che aveva conosciuto Palmiro Togliatti, che avevano mangiato insieme e lo aveva accompagnato a visitare i cunicoli delle grotte di Pilato. Togliatti era innamorato delle piscine romane sotto la villa di Augusto, dove ora è il cimitero. Mi diceva che Maria Picicco e Togliatti si appartavano e parlavano molto ma il contenuto delle loro conversazioni restava un segreto. Seduti a tavola al ristorante EEA, Maria raccontava la sua storia e quello che succedeva negli anni della repressione libertaria a Ponza e Ventotene. Di tutto questo, Angelo si faceva vanto, con la fierezza dovuta. La sua storia lo inorgogliva, quasi come a dirmi io non appartengo a questi.. Era chiaro che Angelo, anche dopo tanti anni in un ospedale psichiatrico, viveva una vita di disagio. A me personalmente, ogni volta che andavo a fargli visita, dava l’impressione di stare nel film di Milos Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo. Angelo era reticente quando gli chiedevo di approfondire la sua storia. In quell’altrove, dove la mente umana concede la residenza all’amore di quegli uomini che non si accontentano dell’ovvio. Non sempre deviare dalle norme che gli altri stabiliscono è motivo di patologia. Angelo Musco non dimostrava un’attitudine al disadattamento e alle regole sociali, come mi diceva la dottoressa responsabile del manicomio. A riguardo penso alla storia della poetessa Alda Merini e ad una sua intervista: un demente, io penso ad un uomo qualsiasi, morto in manicomio non passerà davvero alla storia. Di Angelo Musco persi i contatti quando andai a vivere a Roma. Mi rimane un indelebile ricordo di una persona molto perbene, cosciente, culturalmente e politicamente preparato, cui la storia non è stata riconoscente né la vita ha dato il tributo che meritava. Rimane Togliatti e la sua famiglia che, per un breve periodo della vita, lo hanno dato alla gloria delle persone perbene dell’isola di Ponza. Ed io che ebbi la fortuna di conoscerlo, per cui scrivo di lui, sento l’onore che un poeta deve avere quando pensa e scrive di quelli che sono passati per i demoni della memoria. Scrivo di lui affinché la memoria lo conservi nella storia dell’isola di Ponza.

Con Mariano Picicco trascorriamo le mattinate domenicali a raccontarci queste storie, qui davanti al mare, dove nulla vediamo se non la linea dell’orizzonte e una vigna che cresce. Non passano più le navi né gli aerei per colpa di un virus. Questa umanità ci preoccupa ed è motivo di intense riflessioni. Questo sistema attuale, così come l’organizzazione sociale mondiale, è finito e fallito. Bisogna assolutamente ripensarlo prima che il manicomio si riapra per tutti. Solo il volo dei gabbiani, e il cinguettio degli uccelli di passo in questo mese di maggio, e le nostre storie, rimangono a farci compagnia, arricchite sempre da nuove scoperte. Rimane la sempre voglia irrefrenabile del sogno. Perché, come ebbe a dire il grande Albert Camus, questo mondo così com’è, ci risulta insopportabile. Così, come gli anarchici scrivevano a Mamma Maria Picicco, stiamo noi. Noi, che ancora le idee e i sogni ci nutrono e stiamo a guardare il mare, apparteniamo all’Utopia.

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Omaggio a Luis Sepúlveda

Un vero ribelle conosce la paura ma sa vincerla

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Andrea Simi legge “Le stanze per l’inverno”

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De Luca e Limonov, da Torino a Capri: l’incontro del poeta col rivoluzionario

Eduard Limonov è morto. Di lui conservo un ottimo ricordo e l’entusiasmo che mi ha dato ad essere e vivere da poeta. A vivere sempre tra quei limiti, tra una ragione e il suo impulso rivoluzionario, a rimescolare il tutto, a pensare e non pensare. A saper essere per strada. A vivere, che non tutto è dovuto, e il pericolo è in agguato.

Con lui ebbi anche una approfondita conoscenza storica sulla Russia dalla fine dell’Urss all’era Putin, grazie all’amico giornalista Marc Innaro che ci faceva da interprete. Marc è un giornalista e anche scrittore, acuto e approfondito, ha una grandissima conoscenza sulla Russia e i paesi arabi dove è stato corrispondente Rai. Non faccio che ripetergli di scrivere quanto prima i suoi anni in Russia.

Di Eduard Limonov, chi vuole conoscerlo, consiglio i suoi libri e tutti i siti che ormai dilagano sulla sua vita e le opere.

Io conobbi Limonov alla Fiera Internazionale del Libro di Torino, avevamo lo stesso editore, Sandro Teti. Di lui conoscevo poco se non il libro che gli aveva dedicato in Francia Emmanuel Carrère. Lui presentava Zona Industriale, io Navigare la rotta. Ci presentò Sandro, gli disse che ero un poeta mediterraneo e che trascorrevo gli inverni come un vagabondo tra i porti a scrivere poesie.

Da quel momento a Torino per una settimana circa non ci perdemmo di vista. Certo lui era super richiesto, aveva molte conferenze stampa, interviste alle televisioni di mezzo mondo. Firmava centinaia di autografi, soprattutto a giovani. Io vivevo in tutto questo all’ombra della sua fama. Essere poeta amico di Limonov era per il pubblico della fiera del Libro, e anche soprattutto per me, qualcosa tra la realtà e l’irreale. Un superfortunato.

Lesse le mie poesie in russo, poi mi fece la dedica sul suo libro, io sul mio. Mi chiese dove vivevo e se fossi mai stato in Russia. Se avessi avuto esperienze a vivere senza soldi o mai fossi stato in una galera o in esilio. Convenimmo entrambi che per noi il denaro non aveva quel significato e valore che oggi il sistema economico pretende.

Per lui scrivere poesie era giustamente vivere l’oltre e non avere una vita normale. Per lui un poeta doveva quantomeno una volta conoscere qualche galera o qualsiasi privazione. Un uomo normale non scrive poesie, disse Limonov. Gli rispose in russo Marc Innaro che la mia strada erano i porti del Mediterraneo e che non me l’ero passata sempre bene. Insomma un poco di buono ero stato anche io. Anche io avevo avuto anni difficili.

Aggiunsi in francese che all’isola di Ponza, dove trascorrevo gran parte dell’anno, c’erano stati tempi, non molto lontani, che si viveva una democrazia non sempre applicata e diffusa. E spesso la politica rappresentava più un comune del feudalesimo medievale che una Repubblica nata dopo gli anni del fascismo, e che culturalmente il fascismo in Italia si era solo nascosto, pronto a tornare. E questo, per il mio pensiero, l’isola stava diventando come vivere in una galera, guardato a vista dagli aguzzini di turno.

Gli raccontai che a Ponza avevo un rifugio, lontano da tutto e da tutti, proprio come quello del poeta Lawrence Ferlinghetti in California, fuori San Francisco. Nella sua baracca-rifugio Ferlinghetti ospitava scrittori e musicisti e attori che frequentavano la sua casa editrice. Limonov aveva conosciuto Ferlinghetti, nei suoi anni in America. Anche Ferlinghetti aveva conosciuto la galera per la sua attività culturale. E anche io, come il poeta Ferlinghetti e primo editore di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, ospitavo scrittori, amici e viaggiatori nella mia tana, dove si era soliti, tra bicchieri di vino e una poesia, mettere in dubbio le scomode certezze. Un giorno avrei ospitato pure lui, gli dissi. Mi invitò a Mosca.

L’opera e la vita di Limonov, si possano condividere o no, è un’opera che fa pensare e tiene la mente sveglia. E soprattutto ora, nel momento storico che viviamo. Personalmente non condivido in lui alcuni tratti, quelli più marcatamente provocatori, ma ammiro la forza e l’onestà rivoluzionaria.

Di lui ricordo la lezione sulla politica estera di Putin. A Capri andai con Limonov nel 2019. Voleva andare nell’isola che fu di Gorsky e Lenin, dove nacquero i germogli della più grande rivoluzione della storia del ventesimo secolo. A Capri conobbi un Limonov diverso, anche se appariva la sua malattia e si percepiva una sofferenza trattenuta dal suo abissale coraggio.

A Capri Limonov era libero di tutto il tempo. Non aveva appuntamenti per interviste e incontri. E libero da questi impegni si lasciò andare a raccontare molto di sé e della sua vita a Mosca.

L’uomo libero ritornava sulle strade. Mi disse che lui poteva vivere in un lussuoso albergo o anche sotto un ponte, o in una galera. Per lui non cambiava niente, ora era solo un problema di salute. Erano ben altre le cose che contavano per Eduard Limonov.

Sono felice e orgoglioso di aver incontrato e conosciuto Limonov ed essere andato con lui a Capri, per me è un viaggio nel tempo e nella storia di chi la storia l’ha fatta e l’ha vissuta sul suo corpo. Che meraviglia ascoltare e vedere il bolscevico Limonov, nemico prima e amico poi di Putin, sotto la statua di Lenin, davanti al Mediterraneo. Qui dove si preparavano i moti della rivoluzione bolscevica noi in silenzio, al fruscio del vento tra i pini, sopra un mare che spumeggiava di vento freddo.

Il filosofo Diego Fusaro, di cui stimo il pensiero e l’eloquenza, mi scrisse che sarebbe stato per lui un onore conoscere Limonov, e che ero stato fortunato a conoscere la poesia di Limonov. Non so se questo incontro è avvenuto l’inverno scorso. Ma sarebbe stato molto interessante il loro dialogare.

Il pensiero rivoluzionario di Limonov serve all’uomo, quanto il suo coraggio e la voglia di cambiare il mondo. Ogni pensiero che porta una rivoluzione serve all’umanità. L’ uomo per evolversi deve pensare anche rivoluzionario. E questo è il compito che l’arte si assume. Tutta l’arte è arte se porta a riflettere, a pensare, a guardare il mondo da altre visioni.

La vita di Limonov è impregnata di arte, perché è impregnata di follia, e la follia nutre l’arte. Io che mi trascino addosso il mondo greco, le inquietudini pessoiane, l’amore nerudiano, e la bellezza letteraria e umana di Predrag Matvejevic, ora aggiungo il coraggio esistenziale di Eduard Limonov. La sua rivoluzione del rifiuto, costi quel che costi.

Da h24notizie.com

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