Marrakech, amori e poesia: il viaggio mediterraneo di De Luca/3

Riceviamo e con piacere pubblichiamo la terza di dieci storie scritte dal poeta mediterraneo Antonio De Luca, di Ponza, raccolte ne “I quaderni di Mogador”.

Sono storie scritte due anni fa come diario di viaggio.

I quaderni di Mogador

Oggi mi sono svegliato presto. Sono andato al porto. Le barche stanno ancora a pescare. Ma è già tutto un viavai di uomini indaffarati. Questo porto sta nel sangue di questi uomini.

Uomini mare barche pesci banchine mestieri. È la vita tutta di questa gente. Gli uomini appartengono alla terra. Non la terra agli uomini. Come qualche Dio impostore vuol farci credere. Quel Dio complice di un mondo di schiavi. Che ha trasformato il significato di Dio in un Dio denaro. Era inevitabile. Chi non indicava la virtù ma la fede non aveva altro sbocco.

L’odore del pesce qui è persistente. Ma oggi c’è bassa marea e si sente il profumo delle alghe. Uscendo dal Desdemona ho capito che il mare era calmo. Gli uomini andavano a raccogliere i ricci con la bassa marea.

Ieri mi ha chiamato Kamal da Marrakech. Dice che si è liberata una stanza nel suo Riad. Domani allora ritorno a Marrakech. Devo incontrare Mehdi. Un letterato con cui traduco le mie poesie in arabo. E anche con cui posso mangiare spaghetti.

Dopo tanto cibo straniero ho assoluto bisogno di pasta. Mehdi è vissuto in Italia e quindi a casa sua non manca mai la pasta. Starò a Marrakech un po’ di giorni. Devo seguire la traduzione di un mio testo. E vivere la città secondo le abitudini che ho consolidato negli anni.

Vivere nella Medina. Ubriacarmi dell’edonistico Marocco Berbero. Tra le piazze Jamaa el-Fna e la Place des epices. Pranzo e cena tra le terrazze del Nomad e Les jardin des epices. Pomeriggio a le Jardin secret e il caffè letterario Dar Cherifa. Luoghi di silenzio profumi e bisbiglio dove poter leggere qualcosa. Riflettere e scrivere. Estasiarsi e oziare. A volte volgendo le spalle al mondo.

Incontro la memoria. Sono solito al mattino sedermi al Cafè de France per un tè alla menta. Naturalmente prima di pranzo. Quando il sole caldo piano piano anima. Sempre mi sorprende assistere allo spettacolo della piazza Jamaa el-Fna.

Musicisti, carrettieri, incantatori di serpenti, scimmie, dentisti improvvisati, venditori di ogni cosa, famiglie al passeggio, storpi, poveri e finti poveri. Attori ambulanti. Tutta l’Africa è qui. Non ci si stanca mai della vita che avviene in questa piazza.

La musica tribale incessante. Odori di ogni cosa. Il mondo porta in scena una sua rappresentazione dell’oltre. Giustamente patrimonio dell’umanità. Ma questa orde di turismo mondiale che si riversa su Marrakech, anche se rimane di nicchia. Inizia a provocare il suo danno sociale.

Sempre più persone si dedicano all’elemosina come fosse un mestiere. Io stesso spesso mi faccio prendere dall’elemosinare una madre con bambino. Mehdi ha detto che le donne spesso si fanno prestare i bambini da altre donne. Nonostante la grande rete di accoglienza che il Re ha organizzato per i più sfortunati. Ma tutto questo pensare prevede molto ragionare. E profondità di analisi sociali.

Nel dubbio quando posso io aiuto tutti. D’altronde come ebbe a dire Walter Benjamin: È per merito di questi disperati che ci è data una speranza.

Oggi sono arrivato a Marrakech intorno alle 11. Dopo aver vagato a lungo tra la Medina. Tra gli odori di ogni genere di cosa. Di tutto. Cuoio, stoffe, ottone, rame porcellana ferro vetro spezie zagare eucalyptus cibi cotti. Mangio un panino per strada. Raggiungo Mehdi.

Nel tardi pomeriggio Medhi mi accompagna ad un hammam. Ma niente di eccezionale. Molto approssimato. Ma va comunque bene. Ne avevo bisogno. Domani con Mehdi mi reco alle terrazze del caffè letterario. Qui in assoluto silenzio traduciamo.

Alcuni anni fa conobbi Lorence al sole della terrazza di questo caffè letterario. Avvengono qui anche presentazioni di testi in italiano. Lorence volle vedere la mia borsa. Ed era incuriosita dalla collana berbera che indossavo. A sera mi portò a cena. Conosceva molto bene Marrakech.

Lorence una ragazza parigina da uno spirito molto avventuriero. Di mediocre cultura. Ma molto elegante e virtuosa. Non molto bella. Ma estremamente affascinante. La storia ebbe inizio. In pochi giorni fuggimmo a Lisbona. Ci facevamo molti regali. Lorence voleva una vita serena e mettere su famiglia. Ma io non ero pronto ad un cambiamento di vita così radicale e repentino. Non mi ritenevo adeguato alle sue attese. Sicuramente avrei disatteso il suo sogno. Col senno di poi devo dire che non ero innamorato. Ed è la cosa più giusta.

Ero innamorato della storia. Questo non era la prima volta che mi accadeva. Innamorarmi della storia più della donna. Anche gli amici me lo ricordavano. La storia naufragò dopo più di un anno. Lisbona ci accolse magnificamente. Vivemmo una storia profonda. Come un film diceva lei.

Prendemmo un appartamento al Bairro Alto di Lisbona. Dalla finestra si vedeva la città bassa e il ponte 25 Aprile. Vivevamo molto per le spiagge di Cascais e la vecchia Lisbona. Entrambi dallo spirito decadente, vivemmo un’aria di inizio novecento. Un romanzo io le dicevo. Poi lei tornò a Parigi. Ci ritrovammo a Ponza qualche mese dopo. Di quella storia porto il ricordo indelebile di vivere l’oltre ogni immaginabile. Io rimasi a Lisbona. Non mi diedi scadenze di tempo. Raggiunsi Rui e Filipa e stetti con loro due settimane. Viaggiammo in Algarve e poi verso nord. Al confine con la Spagna.

Con me a Marrakech in questo periodo ho portato alcuni libri. Solo poesia al femminile del mondo arabo. È bene che vivo questi tempi con versi di una poesia che per questa terra del nord Africa ha visto la luce. Donne palestinesi e del Libano, Algeria e Marocco. Negli ultimi anni ho conosciuto la poesia Magrebina.

L’ho approfondita e mi ha entusiasmato. Il Marocco di questo secolo ha grandissimi poeti. Ed ha una fine tradizione letteraria. Con grandi università e Istituti di cultura. Le giovani donne del Marocco rappresentano il maggior numero di laureate nel mondo arabo. Purtroppo l’occidente ufficiale, quello che appare, trascura questa grande cultura.

Marrakech ha un sindaco donna. Ma l’interesse per la lingua araba è in costante aumento nei paesi affacciati sul Mediterraneo. Per questo, è per altrettanti motivi, tradurre i miei versi in arabo mi affascina anche se non è facile. Mi sento onorato che la lingua araba ospita i miei versi. Alcuni pensieri, riportarli nella lingua araba sono di lunga riflessione e spiegazione. Qui ruota tutto molto intorno al deserto. Alla solitudine e al suo cosmo. La condizioni della donna. La libertà e la sofferenza del popolo palestinese. Le difficoltà. Così il mio mare è anche deserto. Nostalgia solitudine gioia dolore libertà amore.

I miei Dei qui sopravvivono con difficoltà. Li unisce a questo mondo il grande spirito religioso del silenzio carovaniero. Del nomadismo pastorale. Beduini come marinai sulla sabbia. Destino. Sacro e logos. Quello che attraversa lo spazio e il tempo delle grandi distanze. Il mio essere senza tempo. Quindi mai fuori dal tempo. Si materializza per queste strade. Così l’ amore nella sua interezza. Una purezza primitiva enigmatica che rapisce. E rimango stupefatto estasiato. Meraviglia totale estrema purezza. Qui l’amore è totalizzante. E poi l’inquietudine vissuta della donna verso il suo voler essere persona libera. La sento nei loro versi, la vedo negli occhi nei corpi. In una dignità fuori dal tempo. Non lontana da questo mondo sta anche questa mia irrequietezza. Questa lotta. In questa nuova dimensione occidentale.

Un occidente defraudato dalla sua unità e della sua identità culturale da forze occulte. Sovversive e restauratrice di imperi. Come ebbe a dire Herbert Marcuse in L’uomo a una dimensione: Viviamo un progresso tecnico una civiltà industriale fondato su una democrazia confortevole e ragionata non sulla libertà. L’uomo non è più il protagonista della sua vitaPer me il Mediterraneo è vivere liberi. Ogni uomo per sua natura aspira alla libertà. L’uomo nacque essere libero. Sociale quanto bastava. La scimmia iniziò a camminare su due zampe. Iniziò a pensare e ad emettere suoni. A disegnare e camminare. Ha camminato tutto il tempo in un istante geologico. Ha conosciuto il sole e le stelle. Ha avuto bisogni di Dei e di poesia. Con la filosofia la Grecia diede ordine al pensiero. E disordine alla ragione.

Tra i poeti del Marocco oggi leggo spesso Mohammed Bennis. Di Fes. Una persona era oggi qui per essere domani in altrove, scrive Bennis. Bennis destabilizza la sintassi e disorienta l’immagine. Deforma l’ordine sedicente pulito. Capovolge il puro. Lo rimescola. Nella poesia visione e invisibile si coniugano. Così l’impuro in questa ebrezza diventa il segno del puro, del bello e dell’ignoto. In questo sento di dire che con il maestro Bennis ho in comune una radice. La parola e il suo cammino. La poesia è radice della logica. E questo per me è un grande onore. Mi inorgoglisce. Mi dà speranza.

Una sua frase troneggia la parete della mia casa-rifugio mediterranea. La poesia d’amore di Bennis disarma. Spoglia e veste d’immensità. Conosce il domani. Bennis è fondatore della Casa della poesia in Marocco. Ed è protagonista presso l’Unesco della organizzazione della giornata mondiale della poesia. Il 21 marzo.

Non solo Bennis. Anche altri poeti del mondo arabo seguo sempre con maggiore interesse. Ascoltare il mio verso in lingua araba, contiene già un’altra poesia. Pensare che qualcuno pensa in arabo sul mio verso mi illumina. Mi affascina. Figli dello stesso spirito d’unione. Mi da vita. Mi abbraccia il pensiero. Non da meno i sentimenti. Un’anima in comune attraversa il suono di una lingua e della parola. Il pensiero unisce più della materia. Il senso della vita.

Stanno con me i poeti. Il siriano Nizar Qabbani, il palestinese Mahmud Darwish, la poetessa marocchina Dalila Hiaoui, la palestinese Fadwa Tuquan. Ma tutta la poesia di queste terre seguo. Spesso mi trovo tra le mani poetesse inedite che mi sconquassano. Tutte le conservo e le porto con me. Con l’anima che viaggia. E il cuore che ama.

Nella città di Napoli a via Santa Chiara ha aperto la libreria Tamu. È una libreria indipendente con uno sguardo approfondito sul medio oriente e Africa del nord. La frequento. È mio intento presentare lì un libro di prossima uscita proprio a Napoli. Nella città di Fes in Marocco ho ascoltato poetesse riprese per strada, nei giardini e sulle fontane dalla televisione marocchina. L’islam è religione della Conoscenza, e prevede quindi la penna, la scrittura. Il verso. Non una conoscenza impermeabile, ma permeata di assimilazione.

Il Mediterraneo ancora dunque una casa comune dove convivono Erodoto, Omero, la Persia, le conoscenze cinese e indiane, mondo arabo. A Tangeri fuggirono quelli della beat generation. La mia casa. Spesso ho sentito dire da queste parti che la via della Conoscenza porta il bene. E di questa Conoscenza è piena la poesia araba. E questo insieme di culture che mi seduce.

La poesia deve tornare soggetto principale di Conoscenza. Non solo potere e denaro strumento di vita. A Lisbona su un muro lessi Mas poesia, più poesia. Ricordai il tempo della conoscenza greca. Contro il tempo che divora, chronos. La poesia partorisce kairos, il tempo della grazia. Prima che il tempo finisca.

Qui per queste terre vivo di bellezza e di enigma, del tempo e della natura. Come il poeta e filosofo di Fes Tahar Ben Jelloun così magnificamente fa vivere nei suoi versi Terra segnata dal tempo e dalla grazia, dove è bello fermarsi. Tardi scende la notte.

Marrakech ancora è sveglia. Io sono stanco. Penso a domani. Quanto durerà questo domani. Apro il libro della scrittrice marocchina Fatema Mernissi. Leggo qualche pagina. La sua scrittura subito mi si butta addosso. Si aprono nuovi scenari e nuovi orizzonti. La ricchezza naturale e umana del Maghreb. E una nuova vita partorisce altra vita.

La cosa principale è essere commossi, amare e sperare, tremare, vivere. Gridava August Rodin a Parigi. Lascio la stanchezza al domani. A Marrakech il viaggio è il verbo. È smarrimento è perdersi.

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Da Napoli al Marocco, il viaggio mediterraneo di De Luca/2

Riceviamo e con piacere pubblichiamo la seconda di dieci storie scritte dal poeta mediterraneo Antonio De Luca, di Ponza, raccolte ne “I quaderni di Mogador”.

Sono storie scritte due anni fa come diario di viaggio.

10 I quaderni di Mogador

Domani parto verso nord. Vado e basta. Prendo il treno da Marrakech per Casablanca e Rabat. Poi per Tangeri.

Mi fermerò ad Assilah. Farò delle soste. Ancora non so dove. Sulle spiagge sicuramente.

Tra rimesse di barche squarciate dalle onde sugli scogli taglienti della costa. Ritornerò tra le poche case di pescatori dove sempre qualcuno ti accoglie e ti cucina sulla spiaggia.

Passerò dove poche case non hanno un cimitero. E i morti stanno fuori casa sotto un mucchio di terra. Senza croce né fiori. Qui la vita la sospesi.

Le strade vanno sempre ripercorse. Lasciammo le ombre. Arriverò a Tangeri non so quando.

Sento che devo ritornare a Tangeri. A Tangeri ho lasciato la poesia. La poesia è catartica. Principio.

Quando vivevo a Lisbona, andavo spesso a Porto in treno. Mi piace moltissimo viaggiare in treno. Il treno mi fa pensare, come anche non mi fa pensare. Egli trasporta il corpo in giro per il mondo. Come una nave.

Sopra una nave si sta di notte a guardare le stelle sul mare infinito. Tangeri è bella. La sua storia è importante. Luogo di rifugio per artisti e non solo.

Vennero quelli della beat generation. Gli impressionisti, i cantanti e i couturier dalla Francia. Anche dall’Italia.

Oggi ci passano tutti della scena artistica mondiale. A Tangeri ci sta anche il Mediterraneo. La città nuova è orribile. Un disastro urbanistico. Una bruttezza che non si spiega. Il porto invece è ben fatto. Tutto il lungomare è fruibile ed è tenuto molto bene, così le spiagge.

Sulle spiagge vado a passeggiare di sera. Di fronte ci sta l’Europa. Per me Tangeri è tutta solo la città vecchia. Quella bianca che si vede arrivando dal mare.

La casbah e la città vecchia sono meravigliose. Fanno pensare al passato. Al fascino della belle epoque. Come nel film di Woody Allen.

La città in un saliscendi di vie, scale, piazze, portoni, slarghi coinvolge, protegge e rapisce. Ma anche disarma. I tetti fruibili guardano il mare e il vento dell’oceano ti viene addosso.

Tangeri è ventosa. Sopra i tetti di Tangeri me ne sto a oziare. A vivere profondamente e sognando altre realtà. A guardare come vivono gli altri.

Scrivo e guardo le navi da lontano passare. Vanno e tornano dal Mediterraneo. Il poeta viaggiatore è straniero in silenzio. Romantico. Nomade. L’idealista che contempla la vita.

Da Tangeri sento voci narranti. Una impetuosa energia mi coinvolge. Una vita misteriosa che guarda verso l’interno. Come in antiche rovine Tangeri è bianca di calce. La calce è il materiale che ancora resiste sulle case delle città di mare. Anche nelle ossa dell’uomo ci sta la calce.

A Tangeri le finestre sono sempre aperte. Di giorno entra il sole, di notte la luna e le stelle. La prima volta a Tangeri arrivai con un libro del poeta greco Ghiannis Ritsos. Aprii le poesie a casaccio. Lessi: Credo nella poesia, nell’amore, nella morte, perciò credo nell’immortalità. Scrivo un verso, scrivo il mondo; esisto; esiste il mondo.

Allora ho capito che Tangeri mi fa esistere, perché esiste lei. È verso. È materia metafisica. È discorso esistenzialista. Tangeri è filosofia. È pensiero in fuga dal normale. Qui posso sfuggire per un tempo al mondo. Sento la materia di cui è fatta. Nel mondo ci sono luoghi predestinati a dare felicità.

Tangeri mi fa essere felice. Mi fa essere spaesato. Mi invento ogni giorno. Sento gli istanti, sento le eternità. Solo già con un contatto visivo sento l’energia. Ho l’impressione che la gente sia interessata a me.

Ricorda quello che Grenier disse dell’Algeria. Che non apparteneva a nessuno e accoglie tutti. Vivo questi luoghi come leggo un libro importante. E che nel corso della vita si ha il bisogno ogni tanto di rileggerlo.

Tangeri è uno di quei posti che mi rende invisibile. Quindi l’essere trasparente mi fa essere più vivo. E passo dall’anima alla città. E viceversa. La bellezza nella sua interezza mi fa vivere l’essere libero. L’albergo è sempre lo stesso.

Per me gli alberghi o i Riad diventano casa. Il Continental sta proprio davanti al mare. Sul porto. Anche la stanza è sempre la stessa. Ultimo piano, con il letto davanti alla finestra.

Qui ci son passati tutti. Scrittori, attori, registi, musicisti. E sicuramente spie e venditori di armi. L’albergo è patrimonio dello stato marocchino. Dalla mia finestra splende il mare, il porto le barche dei pescatori. Il faro in lontananza.

Al mattino guardo le ancore arrugginite sulla Banchina. Un gomitolo di catene le tengono legate. Le palme sul lungomare di sabbia. Una casa sull’infinito.

Come vorrei amare un’amore e tenerlo alla finestra a guardare quello che solo un amore può vedere. Anche Tangeri è una città per poeti. Il verso è nell’aria. Ci viene addosso.

Al mattino vado alla casba. A piedi tra i vicoli, tra le piazze dei mercati. Tra carrettieri e donne indaffarate. Profumieri e venditori di banane. È tutto un viavai di gente.

Nelle piazze dei mercati arrivano le donne dai monti del Rif. Hanno cappelli particolari e vendono i prodotti della terra e latticini. Lentamente arrivo a Tangeri alta. Nel silenzio delle mura il tempo cambia. Allora mi fermo seduto senza meta. Posso sedere ovunque capiti. Di solito ad un caffè all’aperto.

Guardo il piccolo mondo della kasba che mi gira intorno. Vengono dalla Spagna e dalla Francia. Artisti di ogni genere. Pittori, scultori, scrittori. Disegnatori di gioielli e vestiti. E disobbedienti della terra. Hippy nomadi e avventurieri.

I profumieri sono del Marocco come i sarti e gli incisori. I soliti vecchi al sole, o nei caffè.

A metà giornata le strade si riempiono di bambini all’uscita della scuola. Corrono giocano poi si fermano. Chissà cosa complottano.

A Tangeri mangio molto couscous. Mentre la sera un pesce arrosto. La vita qui è molto economica. Costa tutto poco, basta saper scegliere. E naturalmente sapersi accontentare. Ma io non sono un turista.

Ho la condizione di essere uno straniero di passaggio. Cerco asilo temporaneo. L’altra sera ho conosciuto una comunità palestinese. Sono stato con loro. Abbiamo parlato e poi ci siamo fatto le foto. Gente meravigliosa che lotta per la sopravvivenza.

Se potessi scegliere una nazionalità direi che sono un palestinese. Come per gli anarchici. Nel mondo la colpa è sempre nostra. Costretti sempre a difendersi, dal Dio assalitore. Su Israele penso di tutto e di più. Ho niente più da pensare. Li schifo e basta. Decisione presa molto tempo fa.

Il lungomare di Tangeri è molto lungo. Al crepuscolo donne uomini e bambini camminano con passo sostenuto nel vento. Le onde del mare lambiscono i loro corpi ai bordi dell’oceano. Città uomini e mare si mescolano in una metafisica dimensione. Per poi lasciarsi e al bisogno unirsi ancora. In una regola del caos. L’ordine misterioso e intelligente. L’ordine degli Dei.

Tangeri, tutte le vie scendono a mare. Come il mio pensare. Come l’andare di Ulisse per il ritorno. Pensare è ritornare. Fuggire è ritornare. A Tangeri siamo uomini in fuga. Perennemente. Dove il verbo è in base alla natura e non del tempo, come nella lingua di Omero.

Tangeri è un verbo è il desiderio. Me ne sto tra queste terrazze, in questa Medina tangerina come sempre. A contemplare. Eretico e visionario. Inattuale a questo mondo. Per questo felice. Un eroe alle prese con l’amore e la solitudine. Senza benedizioni, la conoscenza fu pagana.

Mi fido dei sogni. Del mio surrealismo. A Tangeri i sentimenti sono profondi. Può succedere di tutto. Anche di importante. E dare un senso in più alla vita. Dovrò invitare una donna. E dedicargli questa città. Romantica ed aristotelica. In rivolta sempre.Sono storie scritte due anni fa come diario di viaggio.10 I quaderni di MogadorDomani parto verso nord. Vado e basta. Prendo il treno da Marrakech per Casablanca e Rabat. Poi per Tangeri.Mi fermerò ad Assilah. Farò delle soste. Ancora non so dove. Sulle spiagge sicuramente.Tra rimesse di barche squarciate dalle onde sugli scogli taglienti della costa. Ritornerò tra le poche case di pescatori dove sempre qualcuno ti accoglie e ti cucina sulla spiaggia.Passerò dove poche case non hanno un cimitero. E i morti stanno fuori casa sotto un mucchio di terra. Senza croce né fiori. Qui la vita la sospesi.Le strade vanno sempre ripercorse. Lasciammo le ombre. Arriverò a Tangeri non so quando.Sento che devo ritornare a Tangeri. A Tangeri ho lasciato la poesia. La poesia è catartica. Principio.Quando vivevo a Lisbona, andavo spesso a Porto in treno. Mi piace moltissimo viaggiare in treno. Il treno mi fa pensare, come anche non mi fa pensare. Egli trasporta il corpo in giro per il mondo. Come una nave.Sopra una nave si sta di notte a guardare le stelle sul mare infinito. Tangeri è bella. La sua storia è importante. Luogo di rifugio per artisti e non solo.Vennero quelli della beat generation. Gli impressionisti, i cantanti e i couturier dalla Francia. Anche dall’Italia.Oggi ci passano tutti della scena artistica mondiale. A Tangeri ci sta anche il Mediterraneo. La città nuova è orribile. Un disastro urbanistico. Una bruttezza che non si spiega. Il porto invece è ben fatto. Tutto il lungomare è fruibile ed è tenuto molto bene, così le spiagge.Sulle spiagge vado a passeggiare di sera. Di fronte ci sta l’Europa. Per me Tangeri è tutta solo la città vecchia. Quella bianca che si vede arrivando dal mare.La casbah e la città vecchia sono meravigliose. Fanno pensare al passato. Al fascino della belle epoque. Come nel film di Woody Allen.La città in un saliscendi di vie, scale, piazze, portoni, slarghi coinvolge, protegge e rapisce. Ma anche disarma. I tetti fruibili guardano il mare e il vento dell’oceano ti viene addosso.Tangeri è ventosa. Sopra i tetti di Tangeri me ne sto a oziare. A vivere profondamente e sognando altre realtà. A guardare come vivono gli altri.Scrivo e guardo le navi da lontano passare. Vanno e tornano dal Mediterraneo. Il poeta viaggiatore è straniero in silenzio. Romantico. Nomade. L’idealista che contempla la vita.Da Tangeri sento voci narranti. Una impetuosa energia mi coinvolge. Una vita misteriosa che guarda verso l’interno. Come in antiche rovine Tangeri è bianca di calce. La calce è il materiale che ancora resiste sulle case delle città di mare. Anche nelle ossa dell’uomo ci sta la calce.A Tangeri le finestre sono sempre aperte. Di giorno entra il sole, di notte la luna e le stelle. La prima volta a Tangeri arrivai con un libro del poeta greco Ghiannis Ritsos. Aprii le poesie a casaccio. Lessi: Credo nella poesia, nell’amore, nella morte, perciò credo nell’immortalità. Scrivo un verso, scrivo il mondo; esisto; esiste il mondo.Allora ho capito che Tangeri mi fa esistere, perché esiste lei. È verso. È materia metafisica. È discorso esistenzialista. Tangeri è filosofia. È pensiero in fuga dal normale. Qui posso sfuggire per un tempo al mondo. Sento la materia di cui è fatta. Nel mondo ci sono luoghi predestinati a dare felicità.Tangeri mi fa essere felice. Mi fa essere spaesato. Mi invento ogni giorno. Sento gli istanti, sento le eternità. Solo già con un contatto visivo sento l’energia. Ho l’impressione che la gente sia interessata a me.Ricorda quello che Grenier disse dell’Algeria. Che non apparteneva a nessuno e accoglie tutti. Vivo questi luoghi come leggo un libro importante. E che nel corso della vita si ha il bisogno ogni tanto di rileggerlo.Tangeri è uno di quei posti che mi rende invisibile. Quindi l’essere trasparente mi fa essere più vivo. E passo dall’anima alla città. E viceversa. La bellezza nella sua interezza mi fa vivere l’essere libero. L’albergo è sempre lo stesso.Per me gli alberghi o i Riad diventano casa. Il Continental sta proprio davanti al mare. Sul porto. Anche la stanza è sempre la stessa. Ultimo piano, con il letto davanti alla finestra.Qui ci son passati tutti. Scrittori, attori, registi, musicisti. E sicuramente spie e venditori di armi. L’albergo è patrimonio dello stato marocchino. Dalla mia finestra splende il mare, il porto le barche dei pescatori. Il faro in lontananza.Al mattino guardo le ancore arrugginite sulla Banchina. Un gomitolo di catene le tengono legate. Le palme sul lungomare di sabbia. Una casa sull’infinito.Come vorrei amare un’amore e tenerlo alla finestra a guardare quello che solo un amore può vedere. Anche Tangeri è una città per poeti. Il verso è nell’aria. Ci viene addosso.Al mattino vado alla casba. A piedi tra i vicoli, tra le piazze dei mercati. Tra carrettieri e donne indaffarate. Profumieri e venditori di banane. È tutto un viavai di gente.Nelle piazze dei mercati arrivano le donne dai monti del Rif. Hanno cappelli particolari e vendono i prodotti della terra e latticini. Lentamente arrivo a Tangeri alta. Nel silenzio delle mura il tempo cambia. Allora mi fermo seduto senza meta. Posso sedere ovunque capiti. Di solito ad un caffè all’aperto.Guardo il piccolo mondo della kasba che mi gira intorno. Vengono dalla Spagna e dalla Francia. Artisti di ogni genere. Pittori, scultori, scrittori. Disegnatori di gioielli e vestiti. E disobbedienti della terra. Hippy nomadi e avventurieri.I profumieri sono del Marocco come i sarti e gli incisori. I soliti vecchi al sole, o nei caffè.A metà giornata le strade si riempiono di bambini all’uscita della scuola. Corrono giocano poi si fermano. Chissà cosa complottano.A Tangeri mangio molto couscous. Mentre la sera un pesce arrosto. La vita qui è molto economica. Costa tutto poco, basta saper scegliere. E naturalmente sapersi accontentare. Ma io non sono un turista.Ho la condizione di essere uno straniero di passaggio. Cerco asilo temporaneo. L’altra sera ho conosciuto una comunità palestinese. Sono stato con loro. Abbiamo parlato e poi ci siamo fatto le foto. Gente meravigliosa che lotta per la sopravvivenza.Se potessi scegliere una nazionalità direi che sono un palestinese. Come per gli anarchici. Nel mondo la colpa è sempre nostra. Costretti sempre a difendersi, dal Dio assalitore. Su Israele penso di tutto e di più. Ho niente più da pensare. Li schifo e basta. Decisione presa molto tempo fa.Il lungomare di Tangeri è molto lungo. Al crepuscolo donne uomini e bambini camminano con passo sostenuto nel vento. Le onde del mare lambiscono i loro corpi ai bordi dell’oceano. Città uomini e mare si mescolano in una metafisica dimensione. Per poi lasciarsi e al bisogno unirsi ancora. In una regola del caos. L’ordine misterioso e intelligente. L’ordine degli Dei.Tangeri, tutte le vie scendono a mare. Come il mio pensare. Come l’andare di Ulisse per il ritorno. Pensare è ritornare. Fuggire è ritornare. A Tangeri siamo uomini in fuga. Perennemente. Dove il verbo è in base alla natura e non del tempo, come nella lingua di Omero.Tangeri è un verbo è il desiderio. Me ne sto tra queste terrazze, in questa Medina tangerina come sempre. A contemplare. Eretico e visionario. Inattuale a questo mondo. Per questo felice. Un eroe alle prese con l’amore e la solitudine. Senza benedizioni, la conoscenza fu pagana.Mi fido dei sogni. Del mio surrealismo. A Tangeri i sentimenti sono profondi. Può succedere di tutto. Anche di importante. E dare un senso in più alla vita. Dovrò invitare una donna. E dedicargli questa città. Romantica ed aristotelica. In rivolta sempre.

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Da Napoli al Marocco, il viaggio mediterraneo di De Luca

Riceviamo e con piacere pubblichiamo la prima di dieci storie scritte dal poeta mediterraneo Antonio De Luca, di Ponza, raccolte ne “I quaderni di Mogador”.

Sono storie scritte due anni fa come diario di viaggio e quella che pubblichiamo riguarda Napoli.6 I quaderni di MogadorOggi mi ritorna Napoli. Napoli amata e sofferta. Pensata e dimenticata e ancora tornata. La porto dentro. Le origini. Mi appartiene. Poroso come la sua pietra.Napoli destino, come Istanbul per Orhan Pamuk. Gli anni delle conoscenze, della poesia, Virgilio, Orazio, Catullo, Leopardi, Dante, Saffo, i filosofi. Tutta la poesia. Moby Dik e Il vecchio e il mare. Il parto di essere un anarchico.Posillipo mi accolse per cinque lunghi anni e mi diede il sangue. I Padri Barnabiti, gli anni dolci del pensiero, delle scoperte. Gli innamoramenti. La vita dei sensi. La bellezza mediterranea. I sentori degli aranci e del lentisco. La passione agli estremi. Le disfatte macerie di una polis.Quanto di Napoli è ora aria che respiro, è luce sulla strada. È carne e poesia di questo corpo irrequieto. Destino. Pensiero arcano. La bellezza e l’amore. Gli Dei e le isole.Napoli è con me per queste terre liberatrici ovunque. Per questo vagabondare in lidi sconosciuti. Ritornare a Napoli sul pensiero di Hemingway e Melville, Wilde, e i viaggiatori di un tempo.Il Vesuvio, Pompei, il Museo di Archeologia, il porto e le navi che partono, il caffè Gambrinus. E poi Il lago d’Averno, i vecchi quartieri, le antiche trattorie, il vino di Gragnano, gli spaghetti alle vongole mangiati ai bordi del mare.Ripercorrere i loro passi con il loro pensiero e il mio di allora, tra i resti della villa di Publio Vedio Pollione, la scuola di Virgilio. Sentire ancora l’eco dei versi nell’antico teatro. La venerata Pausilypon. Dove crebbi gli anni più felici.Quel demone della memoria che ancora alimenta inquietudine e meraviglia. Sogni e illusioni. Il dubbio e la parola. Nella Neapolis virgiliana mandai via il Dio unico salvatore, che promuove superiorità. Guerra e castigo. Basta con quella puzza di Dio, per dirla alla Carmelo Bene. Assassino del pensiero umano. Quella religione maschera di ogni radice di inciviltà. E anche mi ritorna Ponza.Mentre Essaouira mi fa vivere. L’isola lontana. Gli anni primitivi. La vita essenziale. La materia prima. I nonni la famiglia. La prima vita sulle spiagge e sulle barche. I remi i pesci e tutto quello che è marino. La libertà e il suo prezzo. La luce dei pomeriggi d’inverno. Le prime letture, i primi dolori e le gioie irrefrenabili. L’amore sopra il tutto.Quell’isola è una grande stanza senza pareti dove entra il mondo fuori rotta. E poi chiusi la porta per non perderlo. Oggi sto qui, verso le mura di Mogador vado con altre persone. Mi fermo al solito caffè nella Medina. Penso stupefatto di tanto ricordare. Di tutta questa poesia.Anche la memoria abdica al tempo. Per vivere, qualcuno ha scritto TOUT, TOUT, DE SUITE. Tutto immediatamente. Dunque, quello che cercavo sono, scrisse Odysseas Elytis.

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Questo niente
di cui sono fatto
contiene tutto
non ci sono per nessuno
non posso volere essere per nessuno
sono oltre la notte
e il giorno
sono oltre e basta
sono dell’amore
il pensiero terribile
il tempo immortale

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Solo e pensoso
nell’agreste solitudine
sto a raccogliere idee
a pensare e creare

sono i giorni d’aprile
il piacere di vivere
sulla terra che aro

che curo e godo
con la vanga e le mani
con la semina
e ogni pensiero

col sudore del corpo la guardo
col sangue delle viscere
le parlo
e sento tutto quanto non capisco

così nella sera che affoga
sono libero
dai pesanti dolori dell’ oggi
dagli affanni del tempo

Tra i tralci della vite
ci sta un altare
a lodare le Muse

lucente di marmo
con rose
dal colore dell’avorio

la notte sopra risplende la luna piena

passano le navi all’orizzonte
e sento le berte tornare

Nel tremolio dell’Orsa
gli uccelli annunciano l’arrivo del sole
si posano agili a danzare
agli occhi di Cipride

dal bosco vicino
molte voci
nel fruscio lieve
della brezza

Tutto mi è sacro

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Da dove guardo il mondo

Scoglio o pietra spiaggia
o caverna

rocce sporgenti e scogliere spezzate
frontiere che avanzano ed emigrano

isole come madri
con gli uomini addosso

sopra di loro sono nati gli dei

in mezzo al mare
in mezzo al niente

Isole erose dall’essere sole Mito
di voi niente è stato un mai qualunque

sopra le isole la luna e le maree
mi contano i giorni e gli anni

il sole le stagioni
tra la quiete della penombra vive l’amore

così i muri scalcinati
e la ruggine dei chiodi ai quadri appesi

e lo stridio delle porte tra le pareti
contano degli uomini i passi

Tra i cortili imbiancati e nei giardini
di gelsi e di uva e fichi e melograni

arriva il fuggiasco inatteso
Sopra le isole naufragano gli angeli

E ogni libro è un naufrago tra le stanze vuote
tra la polvere della terra e il sale della brezza

i libri rivelano le distanze e gli abbandoni
contengono il viaggio e l’attesa

E così le onde ritornano
e i luoghi lontani di un punto qualunque della terra

le isole sono delle streghe e delle muse e dei veggenti
degli eroi omerici e dei poeti

c’è in loro una vita segreta
il posto sovversivo la frattura del tempo

Sopra le isole si parla con i muri
e il vento li attraversa

una terra per i miei pensieri di minerali
di terra e di astri di acqua e di vino

una scogliera liscia da secoli di tempesta
è una casa

dove la vita è senza un appuntamento
l’ inizio infinito per i devoti della terra.

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Abitare la solitudine

Abito molto tempo
della vita
a pochi metri dagli scogli

la casa arcana
di storie
e versi stranieri
amori inscindibili

una cella modesta
davanti il vasto mare

le onde mi consumano
la pelle come la roccia
gli occhi dalla luce salata

il pensiero dall’ossessione del mare
dal vento da sud
pensare oltre la realtà

la vita mentale qui è di notte
le parole fanno l`amore tra di loro
il giorno la terra
la lavoro con le braccia

dell’umano stamattina
sto con Aristotele.

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Revenca, di Antonio De Luca

di Rita Bosso

Che scriva racconti, che fotografi, che componga versi, Antonio De Luca narra la solitudine.

È la solitudine di Alessio, estraneo all’esplosione di colori dei ciurilli e dei cucuzzielli.

È la solitudine elevata al cubo fuori al bar Panoramica.

È la solitudine di Urgentino, estraneo agli abiti che indossa – così diversi da quelli che ha portato per tutta la vita – e alla via che percorre.

“La mia – dice Antonio – è soprattutto una solitudine letteraria, direi pessoiana. Amo sentire la solitudine degli altri. Mi immedesimo… mi immergo nella solitudine per affondare il verso nell’esistenza umana. L’uomo è solo, inutile illudersi. Dicono che io sia un epicureo. La solitudine mi serve a vivere”.

In Revenca, Antonio si muove su un terreno familiare, dolorosamente familiare: la solitudine dell’uomo di mare; ma uomo di mare è categoria generica, include il pescatore e persino lo skipper: nulla in contrario, per carità, ma sono un’altra cosa.
In Revenca, l’uomo di mare proibisce al figlio – ad Antonio – di iscriversi a una scuola nautica; parla di sé alla nuora e al genero “quasi come se le cose ai figli le mandasse a dire.” La solitudine dell’uomo di mare è totale, assoluta; l’uomo di mare vive un progressivo disadattamento alla terra e al mare, è un anfibio al contrario. La terra non gli dà da vivere, il mare lo sottrae alla famiglia, agli affetti; sbarca, torna a casa ed è un estraneo; imbarca, torna sulla nave e non è più marito, padre, figlio. Il capitano Silverio De Luca tenta di conciliare le sue due vite, tiene a bordo il primogenito e talvolta l’intera famiglia ma non sono crociere né vacanze, Antonio confessa di non aver mai capito se quei periodi trascorsi col padre fossero una punizione o un premio.

Revenca è un testo intenso, una lettura bella e necessaria; ed è una lettura dolorosa per chi ha avuto a che fare con uomini di mare. L’unica nota di dolcezza è la prussiana mangiata sulla nave della Span che riporta a casa, una madeleine per quelli della nostra età.

Revenca è tratto dal libro Vivere il padre, di prossima pubblicazione.
Alleghiamo il link ad uno stralcio, per gentile concessione dell’autore (in condivisione con h24notizie.com e con PonzaCalaFelci).

Da Ponzaracconta.it

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Revenca

Questa storia è estrapolata dal libro di prossima pubblicazione “Vivere il padre”, dello scrittore ponzese Antonio De Luca (Editing Lorenzo Palumbo; Curatrice documentazione Ilenia Picicco)

La morte di mio padre Silverio De Luca, avvenuta nel giugno del 2020, pur nel suo dolore immenso, in un certo qual modo mi fu liberatrice. Finalmente libero di pensare e ripensare alla sua vita complessa, dura e difficile, vissuta sui mari del mondo tra le tante avventure, scoperte, naufragi, libertà e incidenti vari. E poi, il mio rapporto con lui, non sempre facile. Una vita tra Joseph Conrad, Francisco Coloane ed Herman Melville, come spesso racconto, tra la follia creatrice di una vita di sfide, di libertà e la consapevolezza, a suo dire cristiana, di mandare avanti una famiglia nel miglior modo possibile. Una giusta follia creatrice in una vita Oltre, per il suo mestiere di Capitano, il più bello, come ebbe a dire a suo nipote, negli ultimi anni. Ma a me sempre proibì di iscrivermi a una scuola nautica, minacciando pure che mi avrebbe chiuso in un collegio, se non avessi fatto un Liceo. Come poi avvenne.

Un giorno, dopo essere andato in pensione, mi regalò parte dei suoi giornali di bordo, forse solo quelli che lui riteneva che io dovessi conoscere. L’inizio della sua carriera marinara, nelle acque mediterranee degli anni ‘60 e ‘70. Diari di bordo che non ebbi mai il coraggio di aprire finché lui era in vita. Mio padre non ha mai voluto raccontare personalmente gli Oltre della sua vita a me, né a mia sorella, né a mio fratello. Nonostante io abbia navigato spesso con lui in qualità di figlio prima e di ospite riservato e d’eccezione dopo. Era restio a parlarmi, anche se diceva che ero io a non voler parlare con lui. Ma agli altri le cose le raccontava, soprattutto alla mia moglie di allora e al marito di mia sorella. Quasi come se le cose ai figli le mandasse a dire. Nell’estate del 2020 ho iniziato a leggere qualcosa sugli anni a bordo di una nave inglese, il cui nome in Italia fu Revenca: una nave che comandò per 4 anni, a partire dal 1961. Nome che sempre mi affascina ascoltare e ancor più se ne leggo la storia, forse perché da bambino lo sentivo nominare spesso a casa. E poi un giorno papà mi disse che lui aveva amato quella piccola nave, così da farmene un piccolo mito conradiano.

Con il Revenca navigai per circa un mese. Dalle acque delle Isole Ponziane, dove fui preso, fino a Porto Said in Egitto. Poi andammo a Portorose, ma sulle coste della Jugoslavia successe qualcosa di imponderabile. Sul Revenca mi ritrovai a camminare sopra lastre di ferro per la prima volta, a vivere in piccole cabine di legno e a scoprire i nuovi odori della realtà. Gli odori di bordo. Tutto, ogni cosa doveva essere un gioco, un’avventura da vivere e da sognare; raccontano che mi piacesse giocare con le grandi bandiere del Codice internazionale dei segnali marittimi. Inoltre per la prima volta scoprii la presenza di un cane che mi annusava e si strusciava addosso, fino a quasi farmi cadere, come mi avrebbero poi raccontato. Era un pastore tedesco, per me un gigante, come un leone: il suo nome era Argo. Argo dormiva con noi in cabina e lo vedevo andare avanti e indietro per la coperta della nave o stazionare davanti all’ufficio di mio padre. Forse lo metteva lì per non farmi uscire da solo. Fui poi incuriosito dal fatto che ad un certo punto del viaggio il Revenca viaggiasse di poppa, trainato da rimorchiatori. E lì che scoprii il rimorchiatore. Così successivamente pretesi che mi comprassero un piccolo rimorchiatore giocattolo.

Altri ricordi a bordo del Revenca con Argo non ne ho. Ricordo invece il viaggio di ritorno a Ponza da Trieste. Prima in treno e poi in nave da Napoli per Ponza. Non ho molti ricordi della navigazione sul Revenca o di Port Said, se non qualche episodio o qualche scena rimastemi nella parte di quella memoria di bambino, che resta indelebile nel corso della storia di un uomo. A Port Said papà mi portò un piccolo cammello di plastica e stoffa. Sul Revenca avevo l’obbligo di salutare ogni persona che saliva a bordo, dandogli anche la mia piccola mano. Imparai a dire anche “benvenuto” in arabo, mi dissero di ritorno a casa. Ricordo che mi incuriosivano gli occhi rossi del piccolo cammello di plastica, la lingua con cui parlavano quegli uomini a Port Said e i loro cappelli. Fui preso al largo del Faro della Guardia a Ponza. Questa modalità di imbarco per così dire clandestina si sarebbe ripetuta varie volte, fino all’età di 13 anni. Quasi sempre con tutta la famiglia, mia madre, mia sorella, e mio fratello di appena due anni. Ma a volte anche da solo.

Il Revenca veniva da Marsiglia e andava a Port Said. Il motivo di questo mio imbarco me lo posso spiegare nel fatto che probabilmente papà voleva la presenza del figlio, aveva voglia di stare con me, in quegli anni in cui ero ancora figlio unico o per altri motivi a me sconosciuti. Nessuno mai nel tempo mi disse perché dovessi andare con papà, se per premio o per punizione. Con gli anni capii che mio padre voleva godersi i figli e la moglie portandoli per mare. Così era felice: aveva tutto vicino a lui, il mare e noi. La prima volta avevo 6 anni non ancora compiuti, mancava qualche mese e quindi non andavo a scuola. Sta di fatto che mi vidi catapultato da una piccola barchetta, lungo un’alta parete d’acciaio scuro, sopra una biscaggina, tra le braccia di papà. Una parete alta come una montagna, per uno alto forse appena un metro. Ricordo le sue mani quando mi lavava in una piccola vasca con l’acqua mai troppo calda e l’odore di un sapone mai conosciuto prima. Nacque così per me quel mito del sapone di Marsiglia. Ricorderò per sempre anche l’odore del sudore sulla sua pelle, dal momento che dormivamo insieme in un piccolo letto. In futuro divenne un’abitudine dormire con lui, nello stesso letto, quando si viaggiava da soli. L’oblò che stava dalla parte mia del letto serviva a scrutare il resto del mio piccolo nuovo mondo. E poi il profumo della pastina in brodo, rigorosamente vegetale, quasi tutte le sere. Mi rimase per sempre. Era la prima volta – dissero – che mi allontanavo da casa senza mia madre. Un mistero dimenticato fino a quando non mi capitano quattro pagine del giornale di bordo del Revenca, del febbraio del 1964, con la firma di papà e la controfirma con timbro del console di Panama a Trieste. Questa scoperta avvenne nell’estate 2020. Ma devo dire grazie soprattutto agli amici Pietro D’Andrea e il Cap. Silverio Zecca, che mi hanno aiutato in questa ricerca sulla storia del Revenca. E’ grazie a loro se ho potuto scrivere questa piccola storia.

Come risulta da due siti inglesi sulle storie delle navi nel mondo, P&O Ship Fact Sheet e Irvine’s Shipbuilding & Drydock Co Ltd, il Revenca aveva una stazza lorda di circa 2000 tonnellate, esattamente 1942; era lungo 85,43 metri, largo 12,77, con una profondità di pescaggio di 5,79 metri. Era stato costruito nel 1922, in Inghilterra, nella città di West Hartlepool, nel Sunderland, città famosa per i suoi cantieri. Lo scafo era in acciaio, la nave portava merce varia ed era stata costruita in stile liberty. Due stive a prua; al centro le cabine, il ponte di comando, le cucine e alloggio ufficiali; a poppa altre due stive. Inizialmente appartenne alla marineria inglese. Dal 1951 al 1961 fu poi di proprietà dell’armatore napoletano, Giovanni Longobardo. Dal 1961 al 1964 cambia nuovamente proprietà (l’armatore è ignoto ai siti suddetti), battendo bandiera panamense.

Dal giornale di bordo del Revenca del 17 Febbraio 1964:

Qualche giorno fa l’amico Pietro D’Andrea rilegge ad alta voce, durante una cena, questo giornale di bordo del Revenca, firmato da papà: a tutti è sembrato di trovarsi in un teatro greco. Lo ha letto in una maniera molto coinvolgente, come se sospendesse il respiro davanti alla drammaticità degli eventi che si susseguono veloci. Una lettura con una tonalità e pause e sospiri, con silenzi e poi accelerazioni e ancora pause, direi alla Carmelo Bene. Questa volta non mi sono più trovato tra le pagine di Hermann Melville o Francisco Coloane e ho ricordato abbastanza di quel tempo passato a giocare sul mio primo Mediterraneo, inconsapevole della vita a venire. Con la voce di Pietro sentivo di stare nella città di Tebe, durante il suo assedio, dove il destino tutto aveva deciso e stava per compiersi. Tebe si prestava ad essere distrutta dalla furia degli uomini, il Revenca dalla furia della natura. Entrambi sotto i colpi inesorabili del Fato. La polvere dell’esercito alle porte di Tebe, come i marosi, la nebbia, gli scogli e le correnti sulle pareti d’acciaio e sotto la chiglia del Revenca. Ed io, inconsapevole, assediato, come un bambino tra le braccia del genitore agli altari di Tebe. Non ricordo il volto di mio padre in quegli istanti terribili, né posso immaginare i suoi pensieri, ma ho sentito le sue mani ora, dopo mezzo secolo di oblio, le sue braccia a proteggermi, a stringermi.

E qui mi sovviene il Coro dei Sette contro Tebe, dalla tragedia di Eschilo del 467 a. C., la maledizione di Edipo. Le fanciulle del coro che, davanti all’immane tragedia che distruggerà la città, invocano: Ululoabisso d’angoscia, dilaga l’armata, straripa dal campo, marea vasta fulminea… rugge un’acqua a schiantare la rupe…

Dei o Dee sperdete quest’alba di male… spumeggiante di creste come soffi rabbiosi di morte… I capi delle sette armate di Polinice, i cavalli rabbiosi di guerra, come la nebbia che assedia il Revenca, che resiste alla sorte, con il suo Capitano che ha messo gli uomini in salvo.

Il nemico si muove schierato. Così come a Tebe, gli eventi, il fato trascineranno il Revenca alla sua fine gloriosa, direbbe Omero. Nel porto di Trieste, ormai ferito, attenderà la fine, nel silenzio che la morte precede. Mentre l’altro Revenca, quello che stava nella notte quieta sul comodino, continuava a navigare nei sogni di un bambino e nella memoria che dietro si porta. Ovunque andiamo, comunque pensiamo, qualsiasi cosa ci capiti, è sempre l’antica Grecia che ci accora, ci duole e ci incendia. Così ebbe a dire Giorgos Seferis, il poeta greco, Nobel per la letteratura nel 1963. E poi ora mio padre mi sta addosso per sempre, più di prima. Fu un uomo di Omero: amava l’avventura, l’ignoto, il viaggio, il mare come metafora della libertà, della vita, ma allo stesso momento desiderava la casa, la famiglia. I racconti di quando tornava a casa erano degli inni alla vita, alla scoperta, all’avventura, alla conoscenza e alla libertà. Tutti gli uomini incontrati nei porti del mondo, dall’Alaska, al Giappone, dalla Russia, alla Somalia, li chiamava compagni di viaggio. La vita l’ha vissuta col sangue e il sangue è spirito, mi tiene a mente Friedrich Nietzsche.

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Quando la poesia è canto – di Antonio De Luca e Andrea Simi

La prima volta che ho incontrato la poesia di Andrea Simi e di Antonio De Luca è stato alla presentazione a Napoli, presso la Fondazione del Mediterraneo, del libro, scritto a quattro mani, Adespota. Ho ascoltato la lettura di poesie particolari, straordinarie per suono e per immagini, sensazioni ed emozioni, che attraverso quei suoni si percepivano e, devo dire, che è stato amore al primo incontro per una poesia mi è subito entrata dentro, forse anche perché, venendo da studi classici, ho sempre avuto per il mondo antico un particolare amore. Qualche anno dopo ho rincontrato i nostri due poeti a Ponza, nell’isola di Circe, tanto presente nei versi di De Luca, che lì vive una buona parte dell’anno, che lì aveva la casa del nonno da bambino, pur essendo lui nato a Napoli. Ma, in quel luogo viveva “il seno materno salato” della madre, in attesa sul balcone del ritorno del padre capitano. E non posso fare a meno di ricordare le parole di Andrea Simi, che sempre a Ponza, una sera, confidava la sua emozione ogni volta in cui ritornava nell’isola e ne avvistava la sagoma a distanza. In questo lungo periodo di ritiro, dovuto all’epidemia che ci ha fatto stare con il fiato sospeso, ho riletto di Simi Sui sentieri pescosi, che ripercorre i possibili itinerari mediterranei di Ulisse e che traduce in modo eccellente le parti marine dell’Odissea; ho riletto Adespota, dal titolo indovinatissimo per una poesia tanto libera, una poesia-racconto, che, quasi senza punteggiatura, ci narra il mondo antico, cui già accennavo prima, ci narra il mare, il Mediterraneo in particolare, il viaggio di Odisseo e dell’uomo, l’inquietudine e la forza del poeta.
Le poesie di Adespota non recano di volta in volta i nomi dei due poeti, rintracciabili solo in un indice finale, ma, in realtà, ogni poesia è come se appartenesse ad entrambi e perfino nel libro successivo Navigare la rotta, scritto dal solo De Luca, in coda al testo, Antonio dice all’amico poeta “Questo libro appartiene anche a te”; sì, perché di fatto i due poeti, di cui voglio celebrare la poesia, hanno una visione comune, quella del mondo della grecità, che De Luca confessa di aver studiato proprio dietro sollecitazione di Simi; e la grecità, si badi bene, non è un tempo ben circoscritto, un tempo finito, morto, come spesso stupidamente si dice; la grecità è un modo di sentire, di essere, che appartiene a tutto il Mediterraneo, nel quale fu diffusa dall’ellenismo, perché a volte la storia aiuta a costruire unità e sintesi inimmaginabili. La grecità è un universo di sentimenti, primo fra tutti quello della bellezza, della ricerca di un’armonia perduta, più che mai urgente nel disarmonico momento attuale; è il luogo-non luogo dell’uomo con tutta la sua umanità, prima ancora che a Roma si parlasse di humanitas.
I mondi poetici di De Luca e di Simi, dunque, vivono in sintonia e in consentaneità per quanto detto ma anche perché il vero protagonista è per entrambi il mare. Nipote e figlio di lupi di mare Antonio De Luca, peraltro insaziabile e inquieto viaggiatore; amante del mare, che attraversa navigando appena può, Simi. Entrambi, dunque, hanno il mare nelle vene, il mare che, se vissuto in maniera totale e non come magari facciamo noi in estate da villeggianti, oltre a creare il senso dell’esplorazione, della scoperta, della meraviglia, fa di un uomo un nomade dentro, dilata i confini di ogni luogo, anzi elimina spesso i limiti di spazio e tempo, e, più di ogni altra cosa, fa avvertire il nulla e il tutto, l’essere Nessuno e il senso della storia e propria divinità oltre la storia.
Leggere queste poesie, come leggere quelle contenute in Navigare la rotta, che è poi la continuazione ideale di Adespota, ci riporta, anzi ci racconta in versi, facendoci entrare fin nelle sue pieghe più intime, la fascinosa storia del Mediterraneo, restituendoci il senso di quello che è sempre stato, ponte tra Occidente e Oriente, miraggio e sogno per un uomo, che è migrante sempre, per un Ulisse che sogna il ritorno a Itaca; e Itaca, più volte citata, come del resto anche Ulisse, in cui tutti ci riconosciamo, è la fonte, la radice, il “seno salato” della madre, che attende, è il padre che torna.
Due poeti, che con una poesia che si è nutrita essenzialmente di ritmo greco, ci restituiscono il mondo a cui apparteniamo, anche se abbiamo perso il senso di questa appartenenza; un mondo, che ci appartiene tutto intero, che ci parla di quanto abbiamo perso e che dobbiamo assolutamente ritrovare, insieme al piacere di guardare i nostri “ulivi secolari dal tronco contorto e con il sangue nelle radici”, di camminare in una vigna, di gustare mediterraneamente un calice di vino, che per la vicinanza al mare, ha uno straordinario retrogusto salino; insieme al recupero di un eros appassionato, che si rivela in ogni atto, in ogni sentire, perfino nella scrittura forte, essenziale, “senza smorfie letterarie”, come dice Predrag Matvejevic, nella Prefazione ad Adespota, ma melodiosa, aggiungo io. La poesia nasce nel mondo greco primitivo come canto, poi ha perso la parte musicale e ha cercato, in tutta la nostra tradizione letteraria, di incorporarla nel verso e nella parola; cosa che la poesia di De Luca e di Simi, a me sembra, riesce a fare in maniera del tutto naturale, nutrita com’è da voraci e ardenti letture poetiche; e, dunque, la musica è nel corpo di ogni parola, di ogni verso, delle tante espressioni allitteranti, nelle tante reminiscenze poetiche; una melodia, un ritmo che esprimono veramente nel modo più efficace le immagini di un mondo mitico, che non appartiene al passato o non solo al passato, ma che è rivelatore di quella verità che è dentro ognuno di noi, prima e oltre la ragione, come asseriva Vico, e che non sempre trova le parole e le immagini per emergere.
Ma, in questo breve excursus poetico non può mancare uno sguardo a Le stanze d’inverno, ultima fatica poetica di De Luca, in cui passato e presente si confondono, dipanando ricordi e immagini, dalla madre, che piange suo padre al padre del poeta, che “nel suo delirio” oggi chiama il figlio e nella sua solitaria vecchiaia chiede di essere liberato dalle “pietre intorno”; immagini, in cui la giovinezza e il dolore si intrecciano a cantare la vita, nella sua pagana sacralità, nella sua inesausta regione dell’essere: la regione della memoria, luogo fertile e privilegiato, che non conosce confini e che dalla “casa sopra le onde”, “l’amore venuto dal mare” di una fanciullezza mai dimenticata viaggia “nella luce / dei pomeriggi d’inverno”, folgorati da “il vecchio e il mare”. E allora, la stagione trascorsa diviene lo specchio, in cui ritrovare “il tempo dell’origine”, quello in cui, maestoso, regnava ancora il Caos, la divina follia, la poesia che “può salvare”. E, dunque, il “ritorno alla casa” è il ritorno ad Itaca, dove ciclicamente l’inizio incontra la fine e poi un nuovo inizio; e il canto del mare e del vento “che penetra / e fa perdere” si scioglie all’infinito.
Del resto, a questo servono i poeti: a restituirci la parte migliore di noi, la bellezza, la passione e le emozioni, che ci rendono vivi e veri e non falsi e virtuali.

Maria Gargotta

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