Naufrago di una civiltà, i versi di De Luca tra Ponza e Tangeri

Naufrago di una civiltà

Nella natura selvaggia

ogni cosa è una storia libera

con tutte le variabili

l’ordine non è dell’uomo

Come Achab chiedo al capodoglio

quali misteri conosce

e di svelare cosa vede nell’abisso

il bisogno di senso

le ombre di un passato

Tangeri è un luogo

a cui non do definizioni

come le strade di Atene

come Lisbona o Algeri

Istanbul o Marsiglia:

corpi di pensiero e di lettere

che parlano agli uomini

per ritrovare se stessi

nell’inconsistenza della ragione

Il Sole e il vento di Tangeri

sono il sole e il vento dell’infanzia a Ponza

degli anni a Napoli

le estati sulle navi

pesano sul mio corpo

così la bellezza della sua gente

la fierezza la dignità

incantato la guardo in faccia

questa marea di anime

tra cortili di arancia e menta ovunque

Il mare che sbatte alla riva

è la nostalgia di un tempo

dove gli dei erano presenti

ed Eros fece la luce

la geografia è il mio corpo

ne delinea le vene e il nervo

le ossa e il movimento

non ha aldilà:

strade e paesaggi il vicinato

la frugale povertà

il senso epicureista

navi e banchine timonieri e capitani

tutto è materia idea e parola

ragione e amore movimento e indecifrabilità

speranza per capire

a Tangeri cerco

di dare una ragione alla ragione

ma essa sempre sfugge

non è necessario capire tutto

è il sogno che ci protegge

la primordiale innocenza

Avrei voluto vivere a Parigi

sotto un basso tetto di legno

o chissà dove

o vivere in una cabina di un mercantile

e passare la vita sui porti

tra il catrame di navi arrugginite

tra i mendicanti del mare

o passare tra isole degli oceani

e avere figli da crescere:

la casa ho in tutto questo

in questo silenzio

primitivo remoto lontano

un silenzio che è pensiero

il silenzio del mondo

solo il silenzio esiste*

cresciuto tra le foto dei morti di famiglia

a cui diedi presenza e coscienza

discorso e speranza

lacrime e preghiere

ne feci i miei eroi

eroi dell’animo umano

nella casa teatro

storie di uomini di mare

con cui scoprii rotte aspre

e tormenti della rivolta

senza negare mai la libertà

e l’assoluto

e cadendo su queste rotte

le cicatrici sul corpo

porto da bambino:

Questi versi

non hanno un destinatario

non hanno una patria

né ragioni da dare

stanno in un corpo sopra una terra in prestito

vivono e mi danno da vivere

quello che dico

sono cose antiche

sacre

miti di un tempo

cose mie

amori segreti

l’amore che non ho dato:

solo la volontà di essere

nell’esattezza di un momento

Cerco una donna che potrei amare alla follia

fuori dall’orrore dell’oggi

dalla barbarie moderna:

così mi ci butto dentro

e questa volta muoio nel suo grembo scuro

non voglio il tempo del parto

non ci sarà luce che inganna

voglio amare per sempre

vivere senza sapere

sulla terra il tempo passa presto

è fugace e illusorio

anche questo è assurdo

Tangeri è

io sono

volontà di vita

*da José Saramago

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Tangeri, prosegue il ciclo poetico del ponzese De Luca

L’Africa, Tangeri nello specifico, continua ad essere fonte di ispirazione per il poeta Antonio De Luca, di Ponza.

Riceviamo e con piacere pubblichiamo gli ultimi versi che ha scritto:

Quante volte mi hanno salvato la vita

Arcano
per strada in viaggio
il rifiuto di obbedire

un destino
come la poesia
la libertà

Fuori dal tempo
e prima del tempo
seguo il ritmo della vigna
dei pesci
il tempo degli astri
il consumarsi della pietra

Rifugiato sopra isole
e fuggiasco ovunque
tra la città di Fernando Pessoa
e sperduti villaggi berberi
mi fermo sui moli
da sempre
in attesa di mio padre

Tangeri mi accoglie

Dalla Grecia
ho scritto all’uomo
parole primitive metafisiche
la poesia non ha regole

Nell’ ignoto sacro e nudo
accolgo il mondo
e i morti
a cui sono sopravvissuto
gli eroi e gli sconfitti

gli amori mancati
quelli miracolati

il luogo da venire
l’incontro con l’altro

Del profeta
che arriva dal deserto
di Achab e di Odisseo
porto il sangue nelle vene
Picasso mi perseguita
anche Ovidio

La terra non appartiene all’uomo
così dissero gli dei

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Tangeri e la cultura mediterranea nei versi di De Luca

Una vita in viaggio e il viaggio come essenza della vita.

Non si ferma mai il peregrinare del poeta Antonio De Luca, di Ponza, da un capo all’altro del Mediterraneo e quelle terre bagnate dal mare nostrum sono per lui sempre fonte di ispirazione.

Davanti a una spiaggia e ascoltando il rumore delle onde, la mano di De Luca corre al taccuino, dove imprime i suoi versi d’amore per la stessa cultura mediterranea e con i quali mostra il legame indissolubile con la sua isola.

Proprio come ha appena fatto a Tangeri, con Lo Spirito Mediterraneo, poesia che con piacere pubblichiamo.

Tangeri guarda l’oceano e il Mediterraneo.

De Luca vi torna ogni anno, affascinato da quella città multietnica che definisce ombelico del mondo.

Per lui è da sempre città di fuggiaschi.

Ci vissero Matisse, Lacroix, Williams Burroughs, Paul Bowels, Tennessee Williams, Truman Capote, Allen Ghinnsberg, Ive Saint-Loraine, Jean Jenet, Kerouac.

“Qui si rifugiarono gli attori americani in fuga da Hollywood durante il maccartismo – sottolinea De Luca – perché accusati di essere filocomunisti, qui nacque il film “Il Te nel deserto” di Bertolucci, qui son passati tra gli altri Pasolini, Visconti… città che fu fenicia, cartaginese, romana, araba, portoghese, spagnola, inglese”.

Ancora: “Qui si respira la letteratura, la si sente ovunque. Si respira e si vive cultura. Il poeta Tarik Jeaan Belloum lo respiro nelle visioni così come i nuovi poeti marocchini, il Marocco è patria di poesie, così il poeta Mohammed Bennis mi appartiene molto… Qui i giovani tutti vanno all’università e convivono pacificamente tutti i credi religiosi, ci sono le tre religioni monoteiste…qui la geografia è la geografia molto algerina, come nelle pagine di Camus, e la sento sul mio corpo, la geografia mediterranea, la metafisica del pensiero ellenistico mediterraneo”.

Abbastanza per ispirargli versi da cui emerge tutto il fascino del mare nostrum.

Lo spirito mediterraneo

Per strada qui a Tangeri
porto una piccola valigia

dentro, un taccuino e un profumo di Madini
la macchina fotografica
un libro di poeti del Marocco
un altro di Raymond Carver
e un’idea di Albert Camus: che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no.

Ogni mattina attendo l’alba
passo da stanza in stanza
il finire della notte misteriosa
sento il mare
i motori delle barche
sento i gabbiani e i colombi
vedo le luci delle navi passare sull’orizzonte
e la fragile nostalgia mi sovviene:
il volto reale del tempo
la terra che attende
il disordine dell’umanità

il mare straniero e generoso
il porto sconosciuto
le rocce e la lunga spiaggia
la schiuma dei cavalloni
le cicale tra le palme
mi sono più vicini
della terra che mi crebbe

ogni cosa ogni persona
mi sta più vicina
qui non ci si volge dall’altra parte
non si fa finta di niente

poi mi vesto di un gran bene
il preferito color avorio

e salpo per la città
per la mia vita segreta
come una nave
che non conosce porto d’arrivo
tuttalpiù una rada
perché non può esserci porto d’arrivo

A Tangeri
in questa geografia
la rivelazione è una sorte
ho con me
il tempo prima degli Dei
il regno delle cose
la dignità di Nessuno

mi saluta la gente per strada
nei bazar nei caffè
come uno di loro
come colui che arriva da terre antiche
a vivere se stesso
a scrivere e pensare
e che non può fare altro
e altro non chiede

un rifugiato dal mondo
nativo di isole
a cui non più dà un nome

con la memoria nel passato
ogni isola porta di nome Itaca

si, quelle isole di solitudini della esistenza umana
dove si naviga a vista

Tangeri ha il cuore beato
di chi apre le porte
di chi fu cara agli Dei

in qualche piazza o slargo
al Grand Socco o la kasbah
ad ogni vista sulla città
oziando una visione
scrivo qualche parola
la parola che non mente
un verso una poesia

osservo
girandomi nel passato

ho il desiderio di cambiare la vita
essere un altro uomo
stare nella vita di ogni giorno

guardo la gente sono straniero
scrivo da dove arrivo
tutte le miglia che ho percorso
dal giorno della nascita
l’indicibile solitudine della memoria

A Tangeri
sento la vita e l’amore
la devozione e il mistero
l’estasi di essere
di amare libero di andare libero
e perdermi se devo perdermi

pieno di libertà e pazzia
un altro uomo
l’uomo che pensa
e non deve capire

l’uomo delle favole
senza residenze

bisogna vivere
fare presto a vivere
l’isola è solo una possibilità

ho perso la patria

per vivere solo per vivere
sta la terra promessa

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Il tempo pagano, Capri ispira il poeta ponzese De Luca

Nel suo peregrinare da un capo all’altro del Mediterraneo, anche quest’anno Antonio De Luca, di Ponza, è tornato a Capri.

L’isola è intrisa di letteratura e il particolare, unito alla sua bellezza e alla sua storia, continua a ispirare il poeta ponzese.

De Luca ha scritto i versi che con piacere pubblichiamo, un omaggio, l”ennesimo, alla cultura mediterranea e anche a Ponza, dove al Fieno, tra gli antichi vigneti e i pochi contadini rimasti a coltivare quella terra così difficile il poeta ha il suo luogo del cuore.

Il tempo pagano

isola
mare e terra
iniziazione misterica

sei tutto quello
che in me
è rimasto dalla nascita

prigionia desiderata
fuga e ritorno

salvifica e oracolare
acqua madre

terra di amori silenziosi

La casa ho sulla scogliera
solitaria e irripetibile
del primo abitatore
dell’io antico e perduto
della follia libertaria

nel silenzio delle Sirene
mi struggi isola

senza peccare

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Della sirena Partenope

Ogni volta lascio Napoli
per un non so dove

poi torno ed è tutto
già subito una bellezza

la memoria
a Napoli questi giorni
è non pensare il presente
ma io non ho mai avuto
un presente

Napoli è il passato
il passato è la sua sirena

Strade dell’ infanzia
Dioniso il sacro
Leucotea

il tempo di Pausilypon

le navi alle banchine
le luci del porto
la brezza marina del lungomare

l’odore del cibo per le strade
le luci della sera
le chiese e le anime del purgatorio
le bancarelle degli animali
i venditori ambulanti

i compiti nelle sere d’inverno
Virgilio e Saffo
Mimnermo e Catullo
carpe diem

la lingua degli antichi

la geografia
che mi porto addosso
e mi da il piacere e la forma

A Napoli sono nato

ho avuto il primo grido
davanti a questo mare salato
a quei carghi in attesa

La memoria è un magma che apre la terra
ed esce
la vita generatrice

Napoli mi diede la bellezza e la rabbia
la poesia e la catarsi

Napoli è il richiamo letterario
metafora di sangue

l’esilio sta nel passato
dove non ho presente

Ma solo il futuro

il vita che ancora non è
la mia prigione

il dolore dolce
del canto di una sirena

È Partenope
la figlia di Melpomene

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Mediterraneo, storia fatta di piccole storie: gli Aversano e Palmarola

Mediterraneo, isola di Palmarola storie di uomini.

Il Mediterraneo come mi diceva Predrag Matvejevic è fatto di grandi storie. Ma soprattutto anche di piccole storie. Piccole storie che hanno dato il loro immenso valore alla formazione di questa grande umanità mediterranea. Piccole storie che hanno fatto una grande civiltà. Una umanità che ha popolato rive e isole. Che ha costruito la civiltà mediterranea.
La cultura mediterranea. A cui apparteniamo degni e fieri.

Passeggiando qualche sera fa per il porto di Ponza con l’amico Antonio Aversano, e apprezzando la sua incommensurabile bellezza architettonica, nata dall’ingegno di Antonio Winspeare, ingegnere del tempo borbonico, ma anche evidenziando, nostro malgrado, le brutture e la barbaria di questa modernità, ho chiesto ad Antonio di raccontare qualche storia vecchia del padre e della sua famiglia durante la seconda guerra e subito dopo gli anni delle difficoltà.

Storie di una famiglia, gli Aversano, che viveva gran parte dell’anno nella selvaggia, disabitata e primitiva Palmarola. Strappando alla terra e al mare con la dura fatica, una dignitosa sopravvivenza, tra silenzi, solitudini e abbandoni. E soprattutto tanta tanta fatica. Ma anche tanta tanta libertà.

Una vita di sacrifici che rendeva l’uomo stanco ma felice e forte di affrontare un’esistenza su isole disabitate. Una vita dura e difficile, ma che ha dato all’uomo le radici di un’evoluzione. Una vita direi anche alquanto comunista nei valori e termini sociali.

La vita viene dal mare. La cultura viene dal mare. L’amore viene dal mare.

Proprio della cultura ellenistica era l’uomo che si avventurava a scoprire e vivere nuove rive e nuove isole, fondando città e civiltà.

A loro insaputa gli Aversano, come gli Aprea e gli Amalfitano, provenienti da Ponza, l’isola maggiore delle ponziane, erano ereditari di una emigrazione, anche se temporanea, che partiva dagli albori della civiltà mediterranea, la civiltà precedente a quella omerica.

Siamo negli anni ’40, quando gli Aversano della contrada di Sopra Giancos, vivono, gran parte dell’anno, sull’isola di Palmarola in località Grotta dell’acqua. Le maggiori alture dell’isola. Un luogo in cui si ritorna indietro nel tempo.

La parte alta dell’isola dove è possibile coltivare vigneti, ortaggi e pascolare bestiame.
Sulla riva hanno anche una piccola barca da pesca. Vivono in case-grotte e qui trascorrono gran parte dell’anno. Circa dieci mesi.

Una vita sull’isola di Palmarola vissuta di cose essenziali. Qui non esiste il superfluo, l’inutile. Le isole sono luoghi che custodiscono l’essere primitivo, l’origine. Nelle isole tutto si ama. Sulle isole o ami e condividi o sei un perdente.

Arcangelo Aversano e Luigi Aversano li conobbi da ragazzo. E ho dei piacevoli ricordi di due uomini di statura e virtù superiori. Gente venuta da stirpe omerica, uomini della nave Argo, uomini di Giasone.

Loro con le famiglie, a Palmarola avevano fondato delle vere piccole comunità, dedite alla coltivazione della vigna. Biancolella e Guarnaccia importate direttamente da Ischia. Ma soprattutto legumi. A Palmarola si vive non si sopravvive.

Con piccole barche a remi, trasportavano le merci a Capobianco a Ponza, dove avevano una piccola grotta scavata nel tufo bianco.

Capobianco nel mio immaginario acquista una dimensione dell’Oltre, in quanto Federico Fellini ci girò molte scene del Satyricon.

Da Capobianco la merce raggiungeva a spalla la località Faraglioni dove c’era la miniera di Perlite, e da lì con gli asini arrivava alle loro case Sopra Giancos.

A Palmarola le famiglie per mantenersi allevavano conigli, galline, capre, qualche mucca, e poi nelle stagioni propizie si praticava la cacciagione.

Nella pesca, in un mare estremamente ricco, si praticava la pesca delle aragoste e seppie. Queste venivano conservate nelle nasse tenute sotto costa, e poi mandate a Ponza e di qui a Marsiglia con i bastimenti dell’epoca.

Ogni giorno la barca veniva tirata a terra, proprio come ho visto sulle coste dell’Africa occidentale.

Luigi mi raccontava che da Palmarola trasportavano, sempre su piccole barche a remi, anche le fascine che venivano utilizzate dai fornai di Ponza.

Spesso sottocosta ci stavano anche degli affondamenti, dovuti a mareggiate improvvise e soprattutto alla precarietà delle barche.

I contadini di Punta Fieno e le barche dalla spiaggia di Chiaia di Luna andavano in loro soccorso. Venivano recuperati gli uomini e le fascine e qualche volta anche le piccole barche.

Durante la guerra e soprattutto durante lo sbarco di Anzio, la vita a Palmarola si arricchì di inaspettate avventure. Dando agli uomini quella dimensione, che solo la tragicità degli eventi può dare. Così gli uomini con la loro dignità, il coraggio e i valori, danno alla storia il supremo sapere. Danno lustro e cultura all’uomo e alla loro vita. Da Palmarola questa gente, mogli mariti e figli, assistono ai bombardamenti sulle rive di Anzio.
E qualche volta anch’essi vengono mitragliati da aerei tedeschi mentre fuggono nelle grotte dove si ricovera il bestiame.

Durante un giorno di pesca a sud dell’isola, il mare era avvolto in una fitta nebbia e assordante silenzio. Quando Luigi e Arcangelo sentono delle grida straniere venire dal quiete mare di acqua e di nebbia. Loro andarono incontro a queste grida di aiuto quando comparvero due militari tedeschi naufraghi di un aereo abbattuto dagli alleati. Questi, piangendo di disperazione, ormai allo stremo chiedevano aiuto.

I quattro uomini stavano sulla piccola barca, non si chiedevano chi fosse il nemico e cosa potesse accadere. I quattro uomini, figli di un Dio superiore, amavano la vita. Fratelli di una sola razza si strinsero tra le piccole murate di quella barchetta.

Luigi e Arcangelo a remi, da Palmarola portarono i due naufraghi a Ponza, dopo averli assistiti e dato loro da mangiare.

Ogni giorno nelle mattine di primavera i due andavano a pescare. Spesso sulle rive, gli abitanti di Palmarola trovavano scatole di cibi e oggetti vari provenienti dalle rive di Anzio. Che la corrente aveva trasportato.

Donne e bambini perlustravano le rive dell’isola a caccia di questi bottini. Ma spesso si incontravano anche resti umani. Allora si chiamava qualche pescatore di passaggio che provvedeva a trasportare questi sfortunati a Ponza.

Il mio amico Antonio, figlio di Luigi e nipote di Arcangelo, da bambino ha vissuto la sua Palmarola. Dove si dava da fare ad aiutare la famiglia nelle varie attività. Durante i mesi di giugno e luglio bisognava fare una precisa lotta ai topi, altrimenti metà del raccolto, soprattutto l’uva andava perduto.

Antonio mi racconta che spesso veniva ripreso dal padre, in quanto a pesca doveva prendere solo il necessario alla sopravvivenza della famiglia. A Palmarola, non esistevano frigoriferi, telefoni e radio, né corrente elettrica. E tutta la vita avveniva nello scorrere del giorno e delle sue ore. L’alba, le ore pomeridiane, la sera, la notte.

Si andava sugli scogli, l’attesa poteva durare anche giorni, per avvistare un pescatore che li portasse a Ponza.

Mentre gli uomini invecchiano e le loro forze vengono a mancare, lentamente gli Aversano abbandonano Palmarola.

I più giovani emigrano in America. Arcangelo a Ponza si dà all’allevamento di mucche. Luigi si imbarca, mentre Antonio va a studiare a Procida.

Con Arcangelo e la moglie Lucia Silvestri ebbi un’amicizia che si protrasse fino alla fine dei loro anni. Ad ogni parto di un vitellino mi chiamavano affinché potessi assistere e fotografare l’evento. C’era sempre una grande festa nella stalla.

Io vivevo quel mondo virgiliano che mi nutriva più di ogni altra cosa e dentro di me il tempo e gli eventi portavano una vita di poesia e amore per la natura e il suo scorrere delle stagioni.

Col tempo a Palmarola, sulla costa di ponente, dove sta la spiaggia, la famiglia ponzese Di Scala-Parisi aprì un piccolo luogo di ristoro per navigatori solitari e gente di passaggio. Allora la vita di Palmarola si trasferì da questo versante. E le comunicazioni con Ponza partivano dalla spiaggia. E si fecero più frequenti.

La motobarca Santa Rita fu la prima a fare la spola tra Palmarola e Ponza. Aurelio Conte fu il primo comandante della Santa Rita, ma presto lo sostituì per motivi di età Pompeo Di Giovanni. Persona molto perbene, che ho personalmente conosciuto.

La Santa Rita aveva anche un compito fuori dall’obbligo che gli era di pertinenza. Portare a Palmarola e poi la sera riportarlo a Ponza, il primo e il più grande pescatore subacqueo che Ponza abbia avuto. Un certo Gavino, che ben presto diventò una leggenda per tutti i giovani ponzesi e non solo.

Alla famiglia Aversano apparteneva Maria Candida Romano che a Palmarola viveva da sola. Era rimasta vedova. E il figlio le era morto nell’affondamento del piroscafo Santa Lucia a Ventotene. Mitragliato dagli inglesi durante la guerra.

Lei viveva a Palmarola in completo isolamento e autogestione. Antonio quando finiva la scuola, da piccolo spesso veniva mandato a fare compagnia alla zia Maria Candida.

Negli anni ’70 Arcangelo Aversano non può fare a meno della sua Palmarola. Ormai anziano, ma sempre con una volontà e forza interiore, tipica degli uomini che la vita l’hanno faticata, si trasferisce di nuovo a Palmarola.

Ci vive per pochi mesi, durante la stagione della caccia. Si sparge la voce che Arcangelo è ritornato. Il mito è tornato, resiste.

La gente, soprattutto i cacciatori e uomini solitari lo vanno a trovare. La sua fama di uomo buono e accogliente, esce dall’isola e arriva in tutta Italia.

Ora da nord a sud dell’Italia, i cacciatori e non solo vogliono andare a vivere con Arcangelo. Dove si vive di caccia, di pesca e di una vita frugale. Ma libera e immensamente dentro una natura selvaggia. E poi Palmarola offre grandi battute di caccia, soprattutto di tortore, e grandi silenzi.

Ad Arcangelo dava una mano la nipote Maria, figlia di Luigi e sorella di Antonio, nella gestione di questa vita provvisoria.

Un giorno dopo un lungo viaggio di fatiche e avventure, sbarca a notte fonda inaspettatamente, Enrico Fasola da Terni. Mezzo viaggiatore avventuriero e quasi naufrago. Ma accanito cacciatore.

Arcangelo accoglie in una grotta Enrico. Gli dà da mangiare e lo preserva dall’incuria del viaggio avventuroso. Al mattino gli occhi di Maria ed Enrico si incontrano. Nasce la più bella storia d’amore che Palmarola abbia visto nascere.

La storia di Maria ed Enrico ormai anziani vive tutt’ora. Storie mediterranee in una piccola isola, storie di vita. Fatiche, epicureismo, libertà e avventura. Gioia e dolore, vita e morte.
E soprattutto grandi amori.

Così ancora per sempre ritorniamo ad Omero. Il grande capo. Dopo di lui niente di nuovo, hanno scritto a ragione i grandi della letteratura.

Nella mia Odissea ci ho messo anche la vecchia Palmarola. Quella pura e primitiva. l’isola degli uomini buoni, l’isola dei Feaci. E naturalmente la storia degli Aversano. Arcangelo e Luigi uomini omerici. Venivano dalle mura di Troia, da Micene. Hanno viaggiato nella grande civiltà mediterranea. Hanno dato lustro, umanità e saggezza ad un’isola, che di allora gli rimane solo il nome. Che i Proci dell’oggi hanno divorato. Purtroppo non arrivò un Ulisse a difenderla.

Dico ad Antonio mentre finisce il suo racconto: Il fatto che noi siamo affascinati e interessati a storie di uomini che hanno vissuto molto della loro vita in solitudine, come anche una scelta personale, è perché riteniamo, come scriveva Fabrizio De André, che questo modo di vivere la solitudine, sia l’unico stato mentale, spirituale e fisico in cui riusciamo ancora ad ottenere un contatto con l’Assoluto. Fuori e dentro di noi stessi.
Lontani dalla realtà nemica dell’uomo.

La solitudine come scelta, e non come isolamento che è sinonimo di abbandono.
Qualcosa che decidono gli altri. Noi che viviamo per isole abbiamo bisogno di un Assoluto fuori dalle mode religiose. Ed ecco allora, che ancora l’eterno Omero giunge a soccorrerci.

La storia si fa favola, si fa Mito, e nutre quella parte di noi rimasta bambino. Ma che serve assolutamente a vivere. Senza si scompare.

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De Luca, l’isola, il rapporto intenso con il mare e il sentimento

Fonte principale d’ispirazione per il poeta resta sempre l’isola e soprattutto “i tempi perduti”, dove anche nelle Ponziane c’era più miseria ma c’erano valori ormai persi.

Intenso poi il rapporto con il mare, il Mediterraneo dove De Luca si sposta passando di porto in porto.

Per non morire

arrivare dal mare
non è un arrivo qualunque

in questa isola sperduta
nell’alto mare
tra le pareti spesse
più volte intonacate di bianco

la calce cotta dal sole
dal sale del libeccio e del mezzogiorno della terra
si gonfia e cade

il vento da sud
cambia di continuo

è difficile prendere sonno
dove ci si commuove

il rumore delle onde entra
agli infissi della porta

si sente tra gli arbusti
sopra i muri
sulla luce della candela

la luce del faro
dal bastione di basalto
nella notte si perde nel vuoto

la luce ogni nove secondi
entra nel cucinino
sulla dispensa

sulla pentola che cuoce lo scorfano rosso

sul pane posto al tavolo della eucaristia

i cani quieti sono sotto il letto

Come panni stesi al sole del mattino
merluzzi e musdee sardine e polipi
si asciugano al sole e al vento
così facciamo il giro del mondo

l’odore del Critmo e dell’aglio selvatico entra dalla finestra

niente proci niente infedeli
da questa parte di fineterra
che ci protegge

io e te soli
sotto la vecchia coperta di lana
davanti al mare
a proteggerci dal mondo

dalla lunga notte

Passano le Diomedee
ascoltiamo il loro canto nuziale
nel ritorno ai nidi

e noi che diciamo
le parole importanti
il silenzio che rimane

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De Luca, riflessioni sul pensiero di Russell e sulla via per la vera felicità

Bertrand Russell, gli autunni della filosofia al Liceo Denza di Napoli.

Pensando a Pasolini intellettuale e filosofo: ho sempre il suo pensiero presente. Sono un uomo che ha letto i classici, sempre li leggo e li porto con me. Diciamo che sono una strada importante da percorrere.

Sono uno che raccoglie l’uva e fa il vino. Amo contemplare il sole sul mare e i paesaggi della terra. Amo pensare all’origine delle cose. Amo la parola. E l’amore. E mi sento molto vicino all’uomo e alle sue sofferenze. E come scrisse Fernando Pessoa sono uno di quegli uomini che ridono molto, tanto quanto hanno pianto molto.

Quindi di questo mondo creato dalla violenza, dalla necessità del consumo, dalla volgarità, dalla fretta di arrivare, un mondo che non si dà dignità ed etica, che guarda agli interessi di pochi a sfavore della stragrande maggioranza dei popoli della terra, non so che farmene. Anzi lo schifo. Lo detesto. Lo combatto. Gli sto lontano. Perché anche la lontananza a volte è rivoluzione.

Questi ideali pasoliniani sono una filosofia di vita. Ed io vivo da filosofo come qualcuno dice. La filosofia è la vita, nasce dalla vita e la coinvolge. Essa porta una nuova vita. La filosofia è rigeneratrice e allo stesso tempo genera. Genera l’uomo. Senza filosofia l’uomo col tempo è destinato a scomparire. La filosofia è una forma di pratica rivoluzionaria perché mette in discussione l’essere ovvio, e porta il pensiero alla sua radice.

Il potere ha paura della filosofia e a maggior motivo dei filosofi così come dei poeti. Come un albero per essere sano e bello ha bisogno di buone radici, così è la vita. La filosofia mette alla vita buone e sane radici per raccogliere virtù e una sana etica di convivenza.

Della filosofia come ogni anno, l’autunno mi porta ricordi dolci che mi fanno stare bene, e arricchiscono la mia sete conoscitiva. Anche perché sento che da sempre ho una innata propensione a questa arte di scrutare il pensiero.

La memoria di ogni autunno mi riporta agli anni giovanili favolosi del Liceo a Napoli. Finiva l’estate a Ponza e il ritorno a scuola non poteva essere sempre allegro. Soprattutto se poi la scuola aveva una certa severità ed era abbastanza impegnativa. Era il Liceo Classico Francesco Denza dei Padri Barnabiti a Napoli. Ma in quel frastuono di fine estate, triste e malinconico, qualcosa mi dava conforto ed entusiasmo per tornare a scuola.

Ritornare a Napoli. Riprendere a tradurre dal latino, la poesia greca, e riprendere gli studi di filosofia con le infinite disquisizioni che duravano ore, giorni e mesi. I profumi e i paesaggi dell’autunno nella Posillipo virgiliana e gli studi di filosofia sono rimasti nella memoria. E ogni anno le stagioni di adesso si presentano come le stagioni di allora. Quasi a camminare insieme io, la poesia e la filosofia.

Si perché la scuola dei Barnabiti prevedeva la presenza della filosofia ovunque. Tutta la vita di quei giorni era un continuo filosofare. Pensare e pensare sempre in ogni ora del giorno, per ogni materia di studio, per ogni cosa che accadeva o potesse accadere. L’ idea veniva prima di ogni azione.

Il linguaggio esistenziale prevedeva il pensiero primario. In questi tempi che il mondo vive momenti difficili e di sofferenza, voglio pensare al filosofo inglese Bertrand Russell. Il filosofo che molto ha condizionato la filosofia del secondo novecento.

Soprattutto in filosofi come Noam Chomsky, Karl Popper e Piergiorgio Odifreddi e non solo. Noam Chomsky è tuttora un mio illustre intellettuale di riferimento. Un maestro di vita al pari di Zygmunt Bauman, di Albert Camus e di Jean Paul Sartre. Spero che viva ancora tanto perché il mondo ha bisogno di Noam Chomsky vivo.

Russell sposò la causa pacifista, si schierò apertamente contro la guerra in Vietnam e tutte le guerre, e ogni totalitarismo. Non fu tenero assolutamente con il comunismo sovietico e la Cina di Mao, dove a lungo aveva viaggiato. E in economia sposò le teorie di John Maynard Keynes. Teorie al contrario di quelle dominanti oggi. Teorie che tanti disastri stanno combinando nel mondo.

Bertrand Russell fu un liberal socialista, sempre molto critico nei riguardi delle religioni ed in particolar modo del cristianesimo e delle religioni monoteiste. Andò anche in galera varie volte per le sue critiche al mondo del potere cattolico. Al mondo di una vita di rassegnazione.

Scrivere di Russell filosofo non è un compito facile e ci vuole ben altra conoscenza che non ho né mi compete. Voglio parlare di Russell in alcuni suoi interventi pubblici che in questo momento penso siano più attuali che mai. Analisi russelliana in cui la preoccupazione è sempre l’uomo e il suo destino, la strada da percorrere.

Così scrisse Bertrand Russell: “Tre passioni, semplici ma straordinariamente forti, hanno governato la mia vita: la sete d’amore, la ricerca della conoscenza, e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità. Queste passioni, come venti possenti, mi hanno spinto ora qua ora là, in un volo capriccioso, facendomi vagare sopra un profondo oceano di angoscia, fino a che ho raggiunto il limite estremo della disperazione. Ho cercato l’amore, soprattutto perché l’amore è estasi, un’estasi talmente grande che spesso sarei stato pronto a sacrificare il resto della mia vita in cambio di poche ore di tale gioia. E poi l’ho cercato perché mitiga la solitudine, quella terribile solitudine nella quale una coscienza tremante vede, al di là dei confini del mondo, il freddo e tenebroso abisso senza vita. E infine l’ho cercato perché nel congiungimento d’amore ho visto, come in una mistica miniatura, la visione che prefigura quello stesso paradiso che hanno immaginato di vedere i santi e i poeti. Questo è quello che ho cercato, e, sebbene possa sembrare troppo per la vita umana, questo è ciò che, alla fine, ho trovato. Con eguale passione ho cercato la conoscenza. Ho desiderato comprendere i sentimenti degli uomini. Ho desiderato sapere perché le stelle brillano e ho tentato di afferrare la regola pitagorica che esprime numericamente ogni cambiamento nell’eterno fluire delle cose. I miei desideri in questo senso sono stati esauditi, ma solo in piccola parte. L’amore e la conoscenza, per quanto mi è stato dato di goderne, mi hanno sollevato fino a toccare il paradiso. Ma, ogni volta, la pietà mi ha ricondotto sulla terra. L’eco delle grida di dolore risuonavano nel mio cuore. Bambini affamati, vittime torturate dai loro oppressori, anziani indifesi considerati un odioso fardello dai loro figli; e tutta la solitudine, la povertà e il dolore, si facevano beffa di ciò che la vita umana avrebbe dovuto essere. Desidero fortemente alleviare i mali del mondo, ma non posso farlo e ne soffro. Questa è la mia vita. L’ho trovata degna di essere vissuta, e, se ne avessi la possibilità, sarei felice di viverla di nuovo”.

In uno dei suoi libri sulla felicità Russel traccia poi accurate analisi sull’uomo di questa civiltà, tentando delle risposte. Perché in questa società del benessere e della rassegnazione l’uomo è preso da una inconsapevole infelicità, quando già non è consapevole. La competizione, la noia e l’eccitamento, la fatica, l’invidia, il senso di colpa, la mania di persecuzione e la paura dell’opinione pubblica. Queste sono argomentazioni che Russell indica all’uomo per liberarsi dai cappi del sistema dominante.

Russell è precursore dei tempi che viviamo e suggerisce soluzioni. L’uomo deve imparare a non aver paura per avere una esistenza meno faticosa.

Russell conclude il saggio sulla felicità con queste parole: “L’uomo felice è colui che non soffre di alcuna di queste mancanze di unità e la cui personalità non è né in contrasto con se stessa, né in contrasto con il mondo. Un uomo siffatto si sente cittadino dell’universo, gode liberamente dello spettacolo che offre e delle gioie che arreca, non turbato dal pensiero della morte, perché non si sente realmente separato da coloro che verranno dopo di lui. È in questa profonda unione istintiva con la corrente della vita che si trova la massima gioia”.

Trovare l’amore per le passioni, per l’uomo, per l’altro. Non essere individui isolati ma membri di una grande comunità senza meschinità ed egoismi. Russell libera la religiosità dai lacci delle religioni totalitarie e la consegna libera e laica all’uomo affinché viva meglio. Una religiosità che appartiene a tutti.

Russel ha ispirato una nuova religiosità, un nuovo ateismo. Un uomo che cerca il suo essere libero. Solo per essere più felice. Tutti dovremmo sapere più di filosofia, e meno di barbarie dominanti. Seguire il consiglio di Aristotele quando dice che bisogna comportarsi da immortali e vivere secondo la parte più nobile che è in noi. Il contrario: rischiamo l’annientamento.

In un trattato sui principi di riforma sociale Russell scrive: “Gli uomini temono il pensiero più di ogni altra cosa al mondo più di una rovina o della morte stessa. Il pensiero è rivoluzionario e terribile, non guarda ai privilegi, alle istituzioni stabilite. Il pensiero è senza legge, indipendente dall’autorità e dalla saggezza degli anni. Il pensiero può guardare nel fondo degli abissi e non avere timore. Il pensiero è grande e acuto e libero, è la luce del mondo, la più grande gloria dell’uomo. Se il pensiero non è bene di molti ma privilegio di pochi, lo dobbiamo alla paura. È la paura che limita gli uomini, paura che le loro amate credenze si rivelino delle illusioni, paura che le istituzioni con cui vivono si dimostrino dannose”.

Bertrand Russell oltre ad essere un grande filosofo è un maestro di vita. Va seguito.

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Giornale di bordo, il sogno e i nuovi versi del ponzese De Luca

Sono tanti gli spunti per un poeta e i sogni sono tra questi.

E’ stato così che Antonio De Luca, di Ponza, sognando l’Antigone di Sofocle ha trovato l’ispirazione per i suoi ultimi versi.

Il poeta è tornato ai giorni trascorsi a Buenos Aires e alla rilettura di quell’opera all’interno della nota libreria Ateneo.

Da lì, al risveglio, quella voglia irrefrenabile di prendere carta e penna, facendo prendere forma a “Giornale di bordo”.

Fuggitivi e invisibili
chiamati a dire
della perfezione divina
e la miseria umana

a raccontare di Antigone e Medea
di Odisseo e Itaca

il diritto naturale
il diritto indiscutibile

stiamo per isole
o isolate strade di città
ben nascosti
raccolti in silenzio

pietre ammassate dal tempo
ai margini degli abissi

dove la vita
ci appare

erranti
di esistenze inquiete
scriviamo
la parola e il verso
parole di preghiera e amicizia
di solitudine e amore
la rabbia e l’insurrezione
la vita umana

resistere resistere
liberi e lontani

imploriamo il Fato
la cultura antica
il tempo e l’abbandono
la dimenticanza
le cose e la bellezza
il Mito

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De Luca e le riflessioni a Ponza sulla nuova tirannia descritta da Onfray

Riflessione sul libro “Teoria della dittatura” del filosofo francese Michel Onfray, appartenente alla corrente dell’edonismo e del post-anarchismo.

Nel libro Teoria della dittatura, Ponte alle Grazie editore, il filosofo francese Michel Onfray, che da sempre seguo, nell’analizzare le due opere di George Orwell, 1984 e La fattoria degli animali, ipotizza uno scenario dell’oggi, con una razionalità e lucidità analitica disarmante.

Mi viene da pensare come mai non l’avevo tenuta precedentemente in considerazione, questa analisi di Onfray, avendo già letto la maggior parte dei suoi libri.

Forse mi era sfuggito George Orwell, letto già da molto tempo.

Ma i filosofi arrivano dove una semplice mente umana non può vedere, o arriva leggermente più tardi.

E questo nonostante abbia continuato a interessarmi con cura e approfondimento di filosofia dal tempo del liceo. Quindi da 50 anni.

Certamente conoscendo Onfray e condividendo molto del suo pensiero, la sua analisi la tenevo nello stomaco o vagava nella mente come un nomade nel deserto.

Ma ci voleva questo suo ultimo libro a farla uscire alla luce del sole, in modo così libero e sconquassante. Illuminante. Entusiasmante e chiarificatrice sulla nostra condizione di individui di questa attuale società.

Diciamo che ho preso coscienza in modo filosofico di ciò che Onfray negli ultimi tempi scrive.

Il pensiero si è interiorizzato per dirla alla Ivan Illich, altro mio filosofo di vecchio riferimento. Quindi si è fatto esistenza.

Per prendere coscienza di un pensiero, bisogna che questi dentro di noi si faccia esistenza, diventi materia di vita.

Alcuni anni fa il Corriere della sera, diretto da Paolo Mieli, pubblicò un libricino sul filosofo francese, che ben presentava la sua idea del mondo e del pensiero corrente.

Rimasi sorpreso da questa iniziativa del Corriere.

In estate incontrai Mieli, con Gianluigi Nuzzi, nel mio rifugio di Ponza davanti ad un bicchiere di vino Utopia e un accurato piatto di spaghetti con calamaretti.

Mi fu naturale chiedere a Mieli il perché di quella iniziativa del Corriere, considerando le posizioni politiche del filosofo.

Iniziammo così a disquisire sulla filosofia di Onfray con il giusto entusiasmo.

Ci dava una mano il rosso di Utopia. Socrate prima delle lezioni era solito bere vino.

Michel Onfray attualmente nei suoi ultimi libri si definisce un anarchico-socialista.

Dopo essere stato il filosofo dell’ateismo filosofico e lo è ancora, un anarchico individualista e cultore dell’edonismo, del piacere. Proprio della tradizione filosofica greca epicureista, con una fortissima visione libertaria e anticapitalista, supportata da un individualismo esistenziale.

Di Onfray ho condiviso la rivolta dionisiaca e l’esistenzialismo ateo della Scuola di Francoforte.

E tutto ciò traspare ampiamente a tratti nel mio essere poeta, come scrivono i miei critici.

Paolo Mieli con immediatezza disse, oggi Michel Onfray è uno dei più grandi filosofi viventi.

Sicuramente ne abbiamo bisogno per sorvegliare la nostra libertà di pensiero e del suo sviluppo in questi tempi moderni dell’oggi, aggiunsi.

Il pranzo tra di noi avvenne in una conviviale disquisizione sul filosofo. E Mieli si mostrò un bel professore, preparato e illuminista.

Insomma non il Mieli opinionista che appare in televisione, ma il grande uomo di cultura che stimo e ammiro.

In quelle due ore posso dire che facemmo filosofia.

Perché per fare filosofia bisogna essere minimo in due, noi eravamo addirittura in tre.

Come dicevo all’inizio, in Teoria della Dittatura, Onfray rilegge con accurata analisi i testi di Orwell e ne deduce con ragione un accostamento ai tempi che viviamo.

Con anticipo si stanno avverando le previsioni di Orwell.

Dove il mondo sta andando, anzi dove precipita? E cosa sarà di quest’uomo cosiddetto civilizzato? Si chiede il filosofo di Caen.

Onfray il filosofo denuncia, anzi io lo sento gridare: in Orwell troviamo innestato un particolare discorso filosofico che ci porta a riflettere su quanto la nostra epoca sia un’epoca anch’essa di dittatura intesa nel senso di tirannia di minoranza.

Orwell ci parla del potere, del totalitarismo, della natura umana, ma anche e soprattutto della nostra modernità: dell’ipocrisia del linguaggio, della polizia del pensiero, del ricorso al politicamente corretto, della costruzione dell’opinione pubblica attraverso i media di massa, del controllo della vita attraverso la televisione, della distruzione del linguaggio, della riscrittura della Storia, della fabbricazione dei nemici mediatici, della diffusione delle notizie false, del governo delle élite, dell’estromissione del popolo dai centri di potere, dell’invisibilità del vero governo, dell’impoverimento linguistico, dell’abolizione della verità, della eliminazione della solitudine, dell’esultanza da dimostrare in occasione di feste obbligate, della riassegnazione di edifici ecclesiastici, della distruzione dei libri, della relegazione dei poveri ai margini delle città, dell’industrializzazione della produzione artistica, dell’organizzazione delle frustrazioni sessuali, della gestione dell’opposizione, dello sfruttamento del progresso a scopo di dominazione, delle mire imperialistiche, dell’insegnamento di una lingua unica, dell’abbassamento del livello d’istruzione generale, della riduzione di ogni pensiero critico a pensiero psichiatrico, dell’indottrinamento dei bambini, della negazione delle leggi della natura, della creazione di una realtà fittizia, della soppressione della bellezza, dell’invisibilità del potere, dell’eliminazione dell’ultimo uomo.

Mi sembra che tutto ciò si stia avverando e in parte si sia avverato.

Già si vive in questa organizzazione della società.

Quando tempo all’uomo rimane? La nostra non è più una società libera.

L’Europa è ora l’impero orwelliano.

L’impero di Maastricht come scrive Onfray. A mio avviso con grandi ragioni.

Un nuovo tipo di totalitarismo si sostituisce ai vecchi totalitarismi. Dittature che forse non si sono mai estinte.

Come si sta attuando questo nuovo totalitarismo? Con la distruzione delle libertà personali, l’impoverimento della lingua e della cultura, con l’abolizione dei classici, l’emarginazione della filosofia e della poesia, cancellando le parole e il passato, diffondendo notizie non veritiere, strumentalizzando la stampa, creando realtà fittizie, l’abolizione di ogni verità, la soppressione della storia, cancellando il passato e inventando la memoria, la negazione della natura, l’indottrinamento diffuso, l’uniformare il pensiero, la riduzione in schiavitù attraverso il progresso e la manipolazione di ogni forma di informazione.

Basti pensare che in Italia si va a votare secondo la Costituzione e dopo qualche mese il Presidente della Repubblica nomina un capo di governo non eletto dal popolo né presente in Parlamento.

E tutti i partiti e gli schieramenti politici si piegano e asservano al nuovo padrone.

Finiscono le idee, i distinguo, e le diversità.

Si abolisce ogni opposizione, ogni pensiero critico.

La stampa fa da segreteria al potere.

I sindacati si nascondono.

Ogni forma di controllo della democrazia si affievolisce e si piega al Comandante migliore di turno dell’Impero nascente.

O forse questo Impero è già nato e non ce ne siamo accorti del tutto, e ne siamo poco consapevoli.

Ci siamo arrivati a questa tirannia, denuncia il filosofo Michel Onfray. Non è il solo a prendere coscienza di ciò, e non deve essere il solo. Non può essere il solo.

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