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Mario Tarchetti
Dagli anni ’60 fino agli anni ’90, l’isola di Ponza fu frequentata e vissuta, con amore e rispetto, da una moltitudine di artisti. Scrittori, uomini di cinema, pittori e qualche bohemien, ne fecero il loro asilo. La Piazza Pisacane e il Corso si presentavano con la raffinatezza di una primitiva eleganza, così erano il porto e le spiagge della Caletta, Sant’Antonio e del Frontone.
L’isola dava l’impressione, con la sua bellezza naturale e perbene, di voler essere non da meno alla raffinata Positano e alla Capri dei viaggiatori degli ultimi secoli.
In Piazza Pisacane si incontrava Elsa Morante, fresca del Premio Strega, con L’isola di Arturo, e Alberto Moravia, Anna Magnani con la famiglia, Federico Fellini, e così tanti altri del mondo della cultura.
La Piazza borbonica, intitolata giustamente al rivoluzionario Carlo Pisacane, non aveva nulla da invidiare a quella di Capri. Tra questi artisti voglio ricordare il pittore Carlo Fontana, la grande scultrice Ursula Querner, che sulla sua casa-laboratorio dello scoglio della Ravia, ci portò tra gli altri, Giacomo Manzù e Oskar Kokoschka, e l’artista Mario Tarchetti che sulla costa di Frontone costruì il suo rifugio bohemien.
Dopo aver vissuto una intensa vita, tra Parigi, New York e Roma, agli inizi degli anni ’60 Mario Tarchetti si ritira a Ponza. Ho avuto la fortuna di conoscerlo nel 1985 e frequentarlo fino al 1989, anno in cui si ritirò definitivamente a Roma. Ma ho avuto anche la fortuna di abitare per 10 anni nella sua casa- rifugio di Frontone, fino al 2000.
L’approfondimento dell’amicizia con Mario Tarchetti avvenne durante la nascita e la gestione del Winspeare Club, un locale che avevo partorito nelle mie vicissitudini esistenziali tra Milano e Vienna e realizzato alla Banchina del porto come un ritrovo per artisti, uomini e donne sole, viaggiatori e musicisti, insomma gente di ogni altrove, viaggiatori provenienti da ogni fine del mondo.
A Mario piacque subito il restauro del vecchio magazzino borbonico. Mi disse che gli ricordava un locale della villa di Adriano a Tivoli, ma anche un vecchio locale ai quartieri spagnoli di Napoli, che fu sede degli ingegneri e architetti di Napoli nel dopoguerra, dove lui fece la prima esposizione insieme a quei pittori del Gruppo Sud.
Il colore con cui feci dipingere la volta del Winspeare, “per lui era lo specchio degli occhi della fidanzata di Amedeo Modigliani”. Era curioso, voleva sapere da me come fossi riuscito ad arrivare a quella tonalità e con quali prodotti.
L’attenzione all’architettura, ai colori, e alla scenografia del Winspeare, addirittura della porta d’ingresso e delle finestre laterali, ricordavano a Mario il locale di Napoli nel dopoguerra in cui lui e tutto il Gruppo Sud, esponevano. Questo mi ispirò a integrare alle varie offerte esistenziali del Winspeare anche la pittura. Infatti organizzai esposizioni di artisti di strada, surrealisti e impressionisti, concerti jazz e presentazioni di libri.
Con Mario arrivammo ad una amicizia che ci permise addirittura di confidarci amori e segreti. Infatti un giorno, si presentò con una copia della sua sceneggiatura per un film, mai realizzato, scritta a New York. Me la regalò, e ne custodisco la reliquia.
Mario Tarchetti nasce ad Aieta, un paesino calabro a stretto confine con la Campania nel 1910. Dopo le scuole superiori a Cosenza , nel 1927 si trasferisce a Napoli dove studia all’Accademia di Belle Arti. Nel 1929 va a vivere a Roma e inizia a lavorare come disegnatore e pittore, collaborando alla decorazioni della Quadriennale Nazionale d’Arte del 1931. E’ in quella Roma, mi disse una sera al Winspeare, quando gli feci leggere le mie poesie, che incontrava assiduamente al Caffè Greco, Giuseppe Ungaretti e Vincenzo Cardarelli.
archetti amava la poesia e leggendo le mie poesie mi disse che tutto il mio linguaggio e l’azione “rifletteva un acerbo surrealismo”. In alcuni miei versi lui scovava un “primitivismo giacomettiano”.
Parlavamo di Napoli, della sua del dopoguerra, e della mia degli anni ’70, in cui si condivideva interessi culturali comuni. Mi parlava della sua scuola delle Belle Arti vicino al Museo nazionale di Archeologia e mi raccontava delle sue esperienze di studente che si formava in quell’Italia piena di speranze e fervore culturale.
In seguito Mario Tarchetti si trasferì a Parigi e qui frequentò Pablo Picasso e Amedeo Modigliani. I quali influenzarono molto la sua pittura.
Quando Mario mi stringeva la mano immaginavo, attraverso quel contatto, di stringere le mani a quei due geni e per un attimo mi immergevo con l’anima e col corpo in quella Parigi capitale della cultura nel mondo. Era una sensazione che mi metteva molto entusiasmo, e mi dava va la carica per vivere la mia Ponza.
A Parigi Tarchetti fece anche una importantissima esperienza presso la casa di moda Rochas: disegnava per i sarti della casa parigina. In effetti Mario era un esteta e si vedeva in tutto quello che faceva, sempre con grande stile ed eleganza; il suo modo di vestire era sempre impeccabile in ogni occasione e in ogni stagione.
A Ponza in estate vestiva di bianco con un foulard rosso al collo, lasciava una scia di profumo al suo passaggio che uomini e donne seguivano ammirati.
Nel 1935 ritornò a Roma e riprese a frequentare gli ambienti artistici della città. Vinse una borsa di studio che gli permise di iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Durante la seconda guerra mondiale, andò come regista nel 13° Nucleo Cinematografico del Comando Supremo.
Dopo la guerra Mario Tarchetti rimase orfano di tutto e di tutti. Mi disse di essere rimasto assolutamente solo, senza più affetti e protezione. Il suo paese nel 1943 fu completamente distrutto dai bombardamenti alleati. E della sua casa e della famiglia aveva trovato un pugno di cenere e macerie.
Non si diede per vinto e ritornò a vivere a Napoli, dove per sbarcare il lunario si improvvisò sommozzatore al porto. Mario Tarchetti mi raccontava queste intime storie come se le stesse raccontando ad un fratello minore e questo mi commuoveva. Sono stato amico dell’uomo che è passato dai salotti parigini, dai successi in pittura e in amore nel mondo alle umiliazioni del dopoguerra. Ma sempre sapeva raccontarsi con il sorriso e la dignità di un uomo saggio.
A Napoli Mario Tarchetti fa l’insegnante alla scuola inglese e inizia a frequentare quelle persone che nella città partenopea misero i semi per la rinascita sociale e culturale della città.
Nel 1947 fa il suo esordio il Gruppo Sud, un gruppo di pittori napoletani al Circolo Ingegneri e Architetti, che con una mostra di pittura getta le basi di un nuovo corso, una nuova idea di pittura. Non più i vedutisti della scuola di Posillipo, ormai divenuti di maniera. L’importanza del Gruppo Sud di Napoli nella formazione artistica di Mario Tarchetti è palese, ma è anche palese quello che Mario porta in questo ambiente. Tutta la sua esperienza parigina entra a far parte del bagaglio artistico del Gruppo Sud e ne condiziona l’opera. Il gruppo Sud nasce nel 1940 e rappresenta l’Avanguardia della pittura napoletana. Questi erano Renato Barisani, Gennaro Borrelli, Renato De Fusco, Vera De Veroli, Alfredo Florio, Raffaele Lippi, Vincenzo Montefusco, Paolo Ricci, Mario Tarchetti, Guido Tatafiore, Antonio Venditti ed Elio Waschimps. Questo gruppo di pittori erano legati al giornale Sud. Il Sud era una rivista culturale nata grazie a Pasquale Prunas nel 1945. Di questa rivista, facevano parte tra gli altri persone come Anna Maria Ortese, Luigi Compagnone, Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Vasco Pratolini, Domenico Rea, Rocco Scotellaro, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson ed Ennio Mastrostefano. Questi uomini tutti furono colonne portanti di un auspicato risorgimento napoletano del dopo guerra. E inoltre tutti questi hanno contribuito in maniera decisiva e rilevante alla cultura nazionale e non solo. E il pittore, l’uomo Mario Tarchetti fu uno di questi.
Nella pittura di Mario Tarchetti si riscontra l’Espressionismo dell’Ecole de Paris e della Scuola Romana, soprattutto nelle tematiche della descrizione degli ambienti napoletani del dopoguerra. Nei ritratti Mario Tarchetti mostra l’influenza picassiana. Ed è matissiano nei nudi, dove vive tutta l’esperienza parigina.
In questi anni Mario Tarchetti collabora anche con l’amico Corrado Alvaro, come critico d’arte al quotidiano Risorgimento. Nell’estate del 1948 partecipa alla Mostra Contemporanea di Arti Figurative e vince un premio che gli viene consegnato proprio dall’amico Giuseppe Ungaretti.
Allo scioglimento del Gruppo Sud, Napoli gli sta stretta, ritorna a Roma e conosce Roberto Rossellini e Federico Fellini. Con Rossellini collabora come attore e sceneggiatore in Stromboli, terra di Dio. Con Fellini gira 8 ½. I due a Ponza si frequentano durante le riprese di Satyricon dove Tarchetti vive con la sua amante nel rifugio marino di Frontone.
Nel 1970 va a vivere a New York, qualcuno dice per amore. Qui entra nell’editoria della Pochet Books Inc. e scrive sceneggiature. Ed è qui che scopre il suo amore per l’isola di Ponza, “pura, primitiva e selvaggia”, come ebbe a dirmi. A Ponza rimane fino al 1990, come scrive Paolo Guzzanti in una intervista per Repubblica.
Nel 2017 la Galleria d’arte Blu di Prussia in via Filangieri a Napoli ritorna a dedicare un’ampia retrospettiva a quelli del Gruppo Sud e Mario Tarchetti è presente con alcune sue opere provenienti da collezioni private.
Voglio concludere con due ricordi che ho di Mario Tarchetti. Quello di una sera inaspettata al Winspeare, trascorsa insieme al compositore e direttore d’orchestra canadese Howard Shore e alla moglie la scrittrice Elizabeth Cotnoir. I due erano venuti a Ponza per sposarsi ed io ero stato fotografo e testimone. Howard Shore era il musicista di Martin Scorsese e di David Cronenberg, aveva suonato con Thelonius Monk ed era amico di Ornette Coleman, due icone del jazz che io amavo particolarmente. Shore ha vinto tre Oscar per la colonna sonora, tra vari Grammy Awards e Golden Globe. Inoltre ha una Laurea Honoris causa all’università di Toronto, in lettere. Ma la cosa che più ci affascinava a me e Mario fu quando Howard ci raccontò che, essendo amico di John Belushi e Dan Aykroyd, lui stesso diede il nome al film The Blues Brothers. Mario raccontò di alcuni retroscena durante la lavorazione del film di Rossellini, quando scoppiò l’amore tra il regista e Ingrid Bergman.
Nel 2001 finì la ristrutturazione della casa dei miei nonni a Ponza, dove ritornai a vivere, dopo una parentesi a Roma. Una donna che aveva frequentato la casa di Mario Tarchetti in Piazza di Spagna a Roma, mi venne a fare visita e disse. “Ti sei fatto la casa come quella di Mario Tarchetti”. Stessi libri, stessa musica, stessa polvere, stesso caos, poeti dappertutto, panni e fidanzate sparse qua e là sopra pavimenti impolverati di sabbia e consunti di passioni. “Alla fine è quello che volevi”.
Andò proprio così, perché io avevo conosciuto il vero Mario Tarchetti, un uomo che aveva attraversato la vita.
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40 anni fa la prima vendemmia alla Jangada de pedra
Sono passati 40 anni dalla prima vendemmia alla Jangada de pedra al Fieno. L’artista Giuliano Massari ha voluto farmi dono di questa sua creazione. Giuliano vive da moltissimi anni a Ponza. Oltre ad essere un architetto, è uno scrittore, e ha già fatto varie creazioni pittoriche. La sua presenza nell’isola di Ponza è una garanzia culturale per quanti ancora credono che un altro mondo è possibile. Egli è molto impegnato nella salvaguardia del patrimonio storico, ambientale e sociale dell’isola di Ponza.
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L’Europa di Predrag Matvejevic tra Ponza e il Mediterraneo
Riceviamo dallo scrittore ponzese Antonio De Luca e pubblichiamo:
Quando morì lo scrittore Predrag Matvejevic, nel febbraio del 2017, scrissi che me ne andavo in giro per Napoli, dove mi trovavo in quei giorni, bestemmiando in cuor mio senza meta e senza un preciso perché. Ma sentivo che qualcosa era cambiato nella cultura mondiale. Il mondo aveva perso un maestro, un grande intellettuale, un poeta, un filosofo, la voce dei deboli, degli ultimi. La voce di chi alzava la voce contro ogni potere. Col senno di poi ho capito che quelle bestemmie gridate dentro di me per le strade di Napoli, erano silenziose grida di disperazione, erano solo segnali d’allarme per la storia, per la coscienza e la dignità degli uomini, per tutte le democrazie e per il socialismo, per l’utopia.. E soprattutto per quanto sta accadendo oggi in Europa e nel mondo. Con la scomparsa di Matvejevic tutti eravamo più soli.
Uno dei grandi maestri della cultura del 900, il cantore-poeta del Mediterraneo e dei suoi popoli, il difensore delle democrazie, dei diritti degli ultimi, delle minoranze, questa volta era partito senza ritorno. Non l’avrei più visto.
Ho conosciuto e frequentato più volte tra Roma Napoli e Trieste Predrag Matvejevic. Grazie allo scrittore Simone Perotti ed Andrea Simi che gli fece leggere le mie poesie circa 20 anni fa. Ricordo che la sua risposta per me fu un sole. Caro Amico il tuo linguaggio sta fuori dalle imperanti mode letterarie mi scrisse, presto ritorno a Roma ci incontreremo con Andrea. In questi anni ho avuto con lui un affettuoso epistolario.
Inoltre fece con la passione e l’eleganza di sempre, una meravigliosa prefazione ad Adespota, il libro di poesie scritte lungo il Mediterraneo con l’amico grecista Andrea Simi, edito da Vallecchi. Di questa prefazione, dove Predrag, ci faceva due Argonauti, ne parlammo con entusiasmo in un ristorante romano. Li mi chiese perché Pessoa. Il giorno dopo a Largo Argentina a Roma in un appuntamento entrambi alla libreria Feltrinelli, gli raccontai la mia vita a Lisbona. Gli raccontai che l’incontro con Pessoa e i suoi eteronimi, mi aveva cambiata la vita. Ebbene tutto questo per me è stata una grande fortuna. Una finestra spalancata sulla conoscenza, sul Mediterraneo.
Il suo libro Breviario mediterraneo, edito da Garzanti, è per me, il vangelo laico che mi accompagna nel viaggio, che mi dà le rotte e le meraviglie del pensiero antico. E che mai mi fa sentire solo, ma felicemente in compagnia di tanti popoli, tante etnie. Parlare e scrivere della grandezza e della complessità e della statura culturale di Predrag Matvejevic non è un compito che mi si addice.
Matvejevic ha bisogno di altri storici, filosofi, poeti e intellettuali, per parlare della sua opera. Io ho avuto solo la fortuna di nutrire il mio essere poeta della sua vicinanza e soprattutto del suo affetto. Mi limiterò a scrivere di ricordi e di alcune riflessioni fatte con lui.
L’importanza che per me ha avuto Predrag Matvejevic è notevole, soprattutto nelle analisi critiche che faceva alle mie poesie e i consigli che mi dava. Ma quello per cui lo porterò sempre nel cuore, è che mi spronò sempre attraverso ogni lettera ed ogni incontro, insieme ad Andrea Simi, a dover riprendere gli studi classici. Leggi e approfondisci con il pensiero di oggi quello che per te fu il primo latte, mi disse una sera a Napoli alla Fondazione Mediterranea.
Matvejevic spesso mi diceva che prima di tutto lui si sentiva un umanista. Tutta la sua vita, gli impegni accademici, la presenza politica, l’aveva basata sui valori umanisti. Si laureò a Zagabria in Lettere e Filosofia. Predrag amava Napoli per la sua arte, la poesia e tutto quello che rappresentava la città nella cultura mediterranea. Ma era infastidito dalla immondizia e da quell’abbandono anche sociale, che vedeva agli angoli delle strade.
Con Predrag ho parlato molto durante i nostri incontri. Spesso mi portava le fotocopie dei suoi interventi fatte nelle varie università e negli incontri tenutosi lungo le rive del suo amato Mediterraneo. Dei suoi libri ne ho discusso con lui, e c’erano sempre notizie in più che lui non aveva scritto e che mi raccontava.
Parlavamo della Jugoslavia e degli accadimenti fino al giorno prima, Predrag ci teneva che noi tutti dovevamo sapere tutto quanto succedeva nei Balcani, e che i giornali e televisioni nascondevano o raccontavano altre realtà.
Matvejevic odiava la menzogna, mi disse che la menzogna genera violenza e la violenza può sfociare nelle dittature. Ne presi atto con assoluta convinzione.
Spesso mi chiedeva cosa stavo scrivendo. Ed io gli raccontai la storia dei nonni sopra i bastimenti nel dopoguerra per le rive mediterranee a trasportare aragoste e capitoni. Mi raccontò dell’importanza del porto di Marsiglia nella storia mediterranea. Mi disse che se avesse saputo queste storie e i racconti che feci nel libro Vinea Loquens, prima dell’uscita dell’ultima edizione di Breviario Mediterraneo, queste storie sarebbero state nel libro. Quando lesse Vinea Loquens mi telefonò da Zagabria.
Alla presentazione di Pane Nostro in un teatro a Roma, gli dissi che mio nonno da vecchio a casa faceva il pane, e che lo mangiavamo per un mese, e non si faceva mai duro. Inoltre a tavola nessuno doveva iniziare a mangiare se al centro del tavolo non ci fosse il pane. Mi disse, spero che tu hai baciato le mani a tuo nonno. Gli raccontai che mio padre, anche quando ritornava a casa dai suoi lunghi viaggi intorno al mondo, mangiava le gallette, il pane dei marinai. E che anche io avevo imparato sin da piccolo a mangiare quel pane. Mi rispose, accarezzandomi il viso, quando vedi tuo padre portagli i miei saluti. Digli che le più buone le fanno a Beirut.
Matvejevic amava la sua Jugoslavia, l’ha difesa sempre, nei suoi scritti già aveva previsto quello che sarebbe successo, dopo la morte di Tito. La guerra l’aveva segnato per sempre. Ne aveva denunciato gli orrori da ogni piazza, dalle cattedre e dai media. Era irritato fino alla rabbia per l’assenza dell’Europa. L’Europa è finita in Bosnia mi disse. A Sarajevo l’Europa non ha più una morale. Era indignato anche con la Russia per il silenzio sulla guerra dei Balcani.
Questa Europa, quella della Banche e dei signori delle guerre, del colonialismo e del neo-colonialismo, delle lobby finanziarie, non è l’Europa sognata e pensata dai suoi padri fondatori. Chi ha deciso di appropriarsi di un’ idea e farne un’altra, completamente snaturata dai suoi valori primari. Questa Europa non è quella sognata dai grandi pensatori del Manifesto di Ventotene.
Non è l’Europa che i suoi padri fondatori pensavano e sognavano dal loro esilio di confinati a Ponza. Matvejevic mi chiedeva di raccontargli le storie dei confinati a Ponza. Gli raccontai che a 15 anni, avevo conosciuto Sandro Pertini sotto casa mia a Ponza, mentre cercava i suoi vecchi amici del confino fascista. Che conoscevo le lettere che il Presidente scriveva ad un suo amico a Ponza. Mi rispose che avrei dovuto scrivere queste storie. Così che iniziò a nascere il mio libro il falegname e il partigiano.
Matvejevic è stato un intellettuale che ha difeso il socialismo dal volto umano, il socialismo autogestionario di Tito, nonostante ne denunciasse le storture e gli abusi. Egli ha sempre difeso l’unità del paese contro ogni separatismo. A Tito ha dato i grandi meriti delle raggiunte conquiste del socialismo sul piano assistenziale, sanitario e sociale tutto. Matvejevic era fiero che in Jugoslavia l’istruzione era gratuita per tutti. Ma l’aspetto che più mi ha commosso dalle frequentazione con Predrag Matvejevic, è stata la sua oceanica bontà, il suo mettersi sempre con gli ultimi. L’uomo, nella sua più alta forma espressiva, nella sua dignità, nel suo essere, era al centro del suo dibattito conoscitivo, era parte della sua coscienza umana e intellettuale.
Questo suo esistenzialismo, a mio avviso, l’ho sempre pensato e accostato al padre degli esistenzialisti del Mediterraneo, Albert Camus. Non abbiamo avuto il tempo di dialogare su questo, parlammo invece del libro Ispirazioni Mediterranee di Jean Grenier, che di Camus fu professore di filosofia e suo mentore. Grenier prima di andare ad Algeri aveva insegnato a Napoli. Concordammo dell’importanza che Grenier aveva avuto sul suo alunno Albert Camus. E’ noto come Grenier e Matvejevic fossero particolarmente legati ai loro alunni, a cui davano qualcosa che andava oltre all’accademico rapporto.
Grenier e Matvejevic avevano insegnato a Parigi alla Sorbonne, anche se in anni differenti. Prima di guardare al pensiero, alle riflessioni e alla letteratura che li accomuna, bisogna dire che Predrag Matvejevic e Albert Camus, hanno molto in comune della loro vita iniziale. La guerra, l’emigrazione, le restrizioni, le lotte per la libertà, una vita difficile. Due città Zagabria ed Algeri, due paesi l’Algeria e la Jugoslavia martoriate da diseguaglianze sociali e democratiche. Ma entrambi, questi due grandi intellettuali avevano messo l’uomo all’origine di ogni loro pensiero, ed è questo il primo comandamento della filosofia esistenzialista che li accomuna. Entrambi hanno vissuto per l’uomo.
Per capire quale fosse il suo destino, il malessere vivente che lo attanaglia.
Anche Matvejevic aveva un anarchismo interiore e di pensiero, come Camus. Essi avevano la consapevolezza di quello smarrimento esistenziale, e Matvejevic di questo me ne aveva parlato. Entrambi laici. L’uomo può nulla, può solo stare a guardare diceva Camus.
Matvejevic mi ha sempre detto: sono abituato a perdere, posso solo assistere agli eventi. Perdere fa parte del destino dell’uomo. Ma intanto vivo, combatto, sono presente, gioisco e soffro. Alla fine a Matvejevic la vita gli è caduta addosso in un ospedale, un sanatorio mentale.
A qualche amico che lo andò a trovare, lo salutava dicendo, non ci vediamo più. Nella mia coscienza, tra i tanti demoni che mi porto dentro. Uno spesso si presenta e mi fa stare male. Quello di non essere andato a fargli visita, quando la moglie mi scrisse che non potendo più scrivere, era lei che gli leggeva le mie lettere. Lui ci mandava i saluti, a me ed Andrea Simi, dal suo hotel sanatorio-definitivo. Ci salutava da dove era cosciente che non sarebbe più uscito.
Camus e Matvejevic hanno messo l’essere umano al centro di ogni loro riflessione. Entrambi sono stoici spontanei che resistono. E che vivono la vita, abbracciano il mondo e si consolano. Soffrono davanti al destino dell’uomo. Matvejevic vive l’esistenzialismo di Camus e ne soffre, quotidianamente negli atteggiamenti e nelle cose, nei rapporti umani come nei rapporti con ogni potere. Camus dice che conosce un solo dovere, quello di amare. Matvejevic fa lo stesso, non sopporta vedere per strada poveri e mendicanti.
La sera, dopo le lezioni alla Sapienza di Roma, ritorna a casa senza soldi. Anche a Napoli era un continuo distribuire monete da 2 euro a che ci avvicinava. Notai che usciva dall’albergo già con una tasca piena di monete, tutte da 2 euro.
Si dà tutto, ma ci si condanna che non si è dato mai tutto.
Su questo Camus mi laicizzò già negli anni del liceo. Camus fu per me come l’uomo Cristo per i cristiani. Matvejevic è stato ed è l’uomo, che mi fa compagnia tutti i giorni in questo viaggio esistenziale mediterraneo. La Jugoslavia, come l’Algeria a Camus, era diventata il calvario per Matvejevic, la sua croce. Volle ritornare a vivere a Zagabria da pensionato, nonostante lo aspettasse una condanna e non era ben visto dal popolo, dai nazionalisti fascisti e comunisti, dai talebani di ogni confessione religiosa.
Le cartoline che in questi ultimi anni di vita mi inviava da Mostar facevano sempre riferimento alla sua infanzia. Il vecchio voleva ritornare quel bambino che fu. L’uomo ritorna a finire la vita nella terra natale.
La filosofia di Matvejevic e Camus, li fa stranieri. Entrambi hanno vissuto tra asilo ed esilio. Denunciano la guerra e le sue barbarie, l’inerzia e l’indifferenza degli Stati. Scrivono dei diritti fondamentali dell’uomo, l’esistenza e la difesa di tutte le minoranze, la dignità di tutti e soprattutto stanno a fianco dei più deboli.
Giacomo Scotti, scrittore e intellettuale, amico di Predrag, scrive che egli è un uomo col cuore in mano. Ripensando all’Europa, Matvejevic ha sempre detto e scritto, che lui non condivide una Unione Europea senza la culla dell’Europa, il Mediterraneo. Questa Europa così come cresce e si sviluppa non è appropriata alla sua storia e soprattutto non conveniente ad un processo di democratizzazione, di pace e di crescita sociale.
Questa unione di stati così come si sta sviluppando può portare a nuove barbarie? Gli chiesi. Mi rispose con una frase di Pjotr Kropotkin, la questione del pane è più importante di tutte le altre. Evidente che intendesse dire che uno Stato o comunità di più Stati non può affamare i suoi cittadini.
A Roma Matvejevic mi consegnò il suo intervento all’Università di Trieste quando gli consegnarono la laurea honoris causa. La lectio doctoralis portava il titolo L’Europa e l’altra Europa. E’ interessante riportare qui un passaggio dell’intervento di Matvejevic del 2002. Occorrerebbe pensare l’Europa prendendo in considerazione i valori della cultura e della civiltà che la caratterizzano…….Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del passato,più aperta al cosiddetto Terzo mondo dell’europa colonialista, meno egoista dell’Europa delle nazioni, più Europa dei cittadini e meno Europa degli stati che si sono fatti guerre fra loro. Una Europa più consapevole di se stessa e meno soggetta all’ americanizzazione. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile,più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano e meno capitalista senza volto.
Poi mi disse che questa Europa così provinciale, non aveva le basi per dare un nuovo splendore delle tradizioni e della cultura di un tempo. Un’Europa che si era sviluppata senza tenere conto della sua culla mediterranea, aveva acuito le differenze nord sud e creando ancora di più differenze di crescita e sviluppo all’interno del bacino Mediterraneo.
Matvejevic mi diceva che i problemi all’interno di questo mare partono da una assenza di laicità e il prevalere di dogmatismi differenti in spazi brevi, le religioni si erano fortemente clericizzate e questo spesso sfocia in un nazionalismo autarchico, portatore di guerre e distruzioni. Questo stato di fatto era un condizionamento negativo ad una interculturalità. Che invece, l’interculturalità doveva essere uno dei fondamenti, per lo sviluppo di democrazie e assottigliamento delle differenze sociali, economiche e culturali tra i diversi Stati.
Predrag Matvejevic usò e fece suo il termine Democratura. Il termine fu usato per la prima volta dallo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano in riferimento ad alcune democrazie sudamericane. Democratura sta a identificare una democrazia manifestata con elementi dittatoriali o oligarchici. Matvejevic la utilizzò dapprima per analizzare alcuni stati post-comunisti della cortina di ferro. Ma poi negli ultimi anni parlava con profonda amarezza e dolore, che anche in questa Europa socialdemocratica si andava instaurando sempre di più un regime di democratura.
Di conseguenza l’Unione Europea perdeva il principio fondante a cui i suoi padri si ispirarono ripeteva. E tutto questo poteva portare a frustrazioni e indebolimenti sociali dei suoi cittadini, e quindi inesorabile la ripresa di esasperati nazionalismi e dogmatismi.
Questa Europa fa apparire i fantasmi del passato. E Matvejevic non c’è più. E nessuno più ne parla. Come non ascoltiamo più le voci di Antonio Gramsci, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco ed altri.
I filosofi e i poeti danno fastidio a qualsiasi potere. Li nascondono. Allora dove sta adesso l’attuale strisciante e silenziosa dittatura di un pensiero unico. Dove alberga e si manifesta la democratura di Eduardo Galeano e Predrag Matvejevic.
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Utopia
Per i 40 anni di vendemmie alla Jangada de pedra, di Punta Fieno in Ponza, tra gli antichi vigneti di Biancolella, risalenti ad una età di circa 200 e oltre anni, lo scrittore e artista di Ponza, Silverio Mazzella mi ha fatto dono di questa sua pittura, a cui immediatamente mi sono affezionato per tutto quello che rappresenta e non solo. Silverio Mazzella oltre ad essere protagonista, insieme alla moglie Pina e al figlio Gennaro, della sua libreria IL BRIGANTINO, al Corso Pisacane, è uno storico di eccellente qualità. Le sue ricerche nella cultura delle isole ponziane, pur utilizzando un sistema prettamente scientifico e storiografico, sono anche pregne di aspetti poetici, che danno a chi legge i suoi libri, l’impressione di viaggiare in un tempo sospeso, dove l’uomo isolano rimane assoluto protagonista della sua storia. Il suo ultimo libro PONZESI GENTE DI MARE, partorito dopo una lunga e faticosa ricerca, è un importantissimo documento alla identità della cultura dell’isola di Ponza. Il libro porta la cultura ponzese nell’ambito di un Mediterraneo crocevia di tante civiltà. E il ponzese-marinaio resuscita, come sostanza di un sedimento di accumulo di intere civiltà marinare. L’avesse conosciuto il mio amico Predrag Matvejevic sarebbe stato entusiasta delle ricerche di Silverio Mazzella. Il libro a mio parere, scrive una delle pagine più importante della storia dell’isola di Ponza nell’ultimo secolo, e mette il marinaio-ponzese al centro di tutta la letteratura mediterranea, con la sua intraprendenza, con il coraggio rivoluzionario e soprattutto con l’accurata conoscenza che questi uomini avevano del mare e delle isole e dei porti del Mediterraneo, dandogli quella particolare identità esistenziale che gli spetta. Ma Silverio Mazzella è anche un ottimo pittore di acquarelli e anche nella pittura non manca la sua anima poetica, Silverio è figlio di quei viaggiatori-artisti di inizio secolo in giro per il Mediterraneo. Entrare nel suo BRIGANTINO oltre ad emozionarmi ogni volta che ci vado. Lui mi entusiasma con le sue continue scoperte di noi uomini d’isola. Mi ricorda sempre un dialogo con Predrag Matvejevic, quando l’illustre intellettuale mi riteneva fortunato che vivendo in un’isola vivevo in uno spazio maggiore di libertà, cosa che mancava a chi viveva in un continente, ma attento a non rifugiarti in una autarchia mi ammoniva, sarebbe una maledizione. Grazie anche all’arte di Silverio Mazzella resto vigile.
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Sugli scogli di Punta Fieno l’ultimo viaggio della Lusitana
Da H24 Notizie:
Riceviamo dal poeta ponzese Antonio De Luca e pubblichiamo:
L’ultimo viaggio della LUSITANA
Il mare nero si gonfiava, si gonfiava senza posa. H. MELVILLE
Avevo invitato nel mio rifugio letterario A JANGADA DE PEDRA a Punta Fieno il direttore di un importante quotidiano nazionale, Oreste Romagnolo, chef creativo di cucina mediterranea, sua moglie Valentina, e la caporedattrice di una nota rivista, e infine l’amico di viaggio Pietro D’Andrea. Pietro festeggiava il suo compleanno quel giorno.
La giornata al mattino si presentava serena e tranquilla e anche il mare non dava segnali di scompigli improvvisi. Dopo che avevo fatto il mio solito giro tra le vigne per accertare dello stato di maturazione dell’uva, iniziarono dal mare ad arrivare gli ospiti, dopo aver dato fonda al largo le loro barche.
La mia bianca barchetta l’avevo ormeggiata come al solito tra i due scogli dell’approdo, come faccio da sempre. Naturalmente qui per avere un ormeggio sicuro, il mare deve essere totalmente calmo, e quel giorno era totalmente calmo.
Avevo organizzato questo piccolo simposio per incontrare degli amici ma soprattutto per parlare di cucina mediterranea, di giornalismo e di poesia, ma anche della mia prossima uscita editoriale, Sandro Pertini la mia Ponza. Già l’importante quotidiano nazionale mi aveva dedicato una presentazione a il Falegname e il partigiano, la storia di un incontro casuale con Sandro Pertini. Avevo allora 15 anni, il Presidente passeggiava da solo sotto casa mia, la sua strada da confinato politico.
Mentre gli ospiti girano tra le vigne e la casa, Oreste si cementava in una creazione a base di aragoste. Io in un vermicelli con le cozze. Pietro va in cantina a prendere qualche bottiglia di Utopia per il benvenuto alla sacralità dell’ ospite. Il frugale pranzo inizia tra racconti e storie di vita quotidiana.
Al direttore chiedo del filosofo francese Jacques Attali, che aveva intervistato a Torino alla Fiera internazionale del libro, dove ero presente. Le intransigenti posizioni di Attali e della politica Francese su questo tipo di Europa mi interessavano. Considerando che un’altra Europa, qui a Ponza e Ventotene i padri fondatori pensavano e sognavano. Attali era il consigliere di Francois Mitterrand all’Eliseo, e in quegli anni le sue posizioni erano diverse.
A Oreste chiedo di quei piatti che mi fece mangiare da Eataly a Roma, che oltre alla loro squisitezza, mi diedero grandi emozioni gustativi e olfattive, oltre per l’accurato design. La bretella di orata marinata su agretto di pomodoro, la patata liquida con trito di gamberi e caviale, e la zuppa di ricci, oltre ad essere sublimi invenzioni, li sentivo piatti di una profonda sensualità, una sessualità gastronomica.
A tavola tra il gustare le varie squisitezze mediterranee e i dialoghi liberi e sinceri, trascorriamo qualche ora. Valentina ogni tanto si affacciava sul mare per vedere l’arrivo della loro figlia Alice. Intanto ci avvisava che notava un certo moto ondoso silenzioso che prima non c’era.
Io facevo notare a tutti l’assenza totale di vento, e una appena accennata brezza da ponente. E questo stato mi turbava con l’avanzare del tempo. Ma presto mi rendo conto che le onde arrivano da libeccio e si stanno ingrossando a dismisura. La barca così come era ormeggiata, non stava più bene e mi preoccupavo.
Provo a telefonare all’amico Comandante Silverio Zecca sull’aliscafo della Laziomar Monte Gargano, che naviga sulla rotta Formia Ponza. Silverio mi conferma che al largo dell’Isola già monta una grossa piena di Libeccio con onde alte 2 metri.
Dissi allora agli ospiti che dovevamo affrettare il ritorno e la discesa alla scogliera. Prendere le barche e fare rotta di ritorno. Ma nel giro di qualche minuto Valentina ci dice che una onda più grande delle altre ha portato la Lusitana sugli scogli.
Noto che la barca stava parallela al mare, ed era già abbastanza incastrata tra i primi scogli della battigia. Immediatamente lasciamo il tutto, ed io Oreste, il direttore e Pietro corriamo in suo soccorso. Appena arriviamo ci rendiamo conto delle difficoltà e della situazione di estremo pericolo, il mare da libeccio si ingrossava a vista d’occhio.
Io e Pietro e il direttore alziamo la prua tra le braccia, come un vecchio morente, e la mettiamo al mare, mentre Oreste la spingeva al largo. Meglio affondarla e poi trainarla, che vederla tra gli scogli in mille pezzi.
Sembrava che stavamo vincendo la nostra battaglia, quando un’altra onda alta e potente ci sbatte a noi quattro e la stessa Lusitana sugli scogli ancora più su. Iniziamo a renderci conto che la situazione precipitava irrimediabilmente.
Ognuno di noi aveva delle ferite. Ogni onda sempre più grossa, vorace e mortale sbatteva le piccole e fragili murate contro gli aguzzi e taglienti scogli. Ogni nostro tentativo risultava vano davanti a quella forza crescente. La barca dopo un po’ iniziò a rompersi nel fasciale laterale, noi ci allontanammo, era diventato pericoloso stare vicino. Un’altra onda sempre più grande, la spezzo in due, e le altre onde crescenti, capovolsero la prua, la chiglia guardava il cielo, come a imprecare il destino. Altre onde la flagellavano e la ruotavano su stessa, la chiglia a prua si infilò tra gli scogli e la parte poppiera rimase alquanto ferma alle feroci onde. La fiancata di dritta il mare la rendeva a pezzi, la sbriciolava, mentre la prua, prima veniva sollevata sulle onde e poi sbattuta con inaudita violenza sugli scogli anch’essa frantumandosi. La prua rimaneva sulla cresta dell’onda, come se una mano la lanciasse di continuo sugli scogli, affinché prima finisse il tormento, il respiro, la vita.
Cercammo di recuperare le dotazioni di bordo e le mie attrezzature da sub, la cuscineria e tutto quanto le onde ci restituivano. Il mare dava l’impressione quasi a disprezzare la nostra presenza. Onde come Moby Dick, che attendono la morte.
La morte davanti agli uomini per ricordare la nostra fragilità e inutile volontà davanti al destino, alla sfida. La Lusitana come la Essex, noi come Owen Chase e il suo equipaggio che attendono l’annientamento completo della nave, la distruzione, la fine. Stavamo silenziosi atterriti dalla imprevedibilità e dalla tempestività degli eventi, dalla velocità del destino, che spesso alla mente umana non permette alcuna ragione.
Oreste e il direttore senza parole, Pietro il suo volto bianco, io non facevo altro che gridare era questo il suo destino come un mantra, come una litania. Parlavo da solo incapace di pensare, incapace di versare lacrime. Tutto mi tenevo dentro, la morte di una barca tanto amata mi trascinava con lei nell’abisso. Il dramma non mi dava tempo a pensare, non potevo, non dovevo pensare.
Il mare ci buttava addosso i suoi relitti come a schiaffeggiare, ci buttava addosso quello che amavo, a ricordare la caducità della vita, il nostro essere Nulla davanti al destino. L’uomo non ha domini, tutto è provvisorio.
Nel giro di 10 minuti il dramma era completato, la Lusitana nella sua elegante e leggendaria forma non esisteva più. Pezzi del suo bianco scafo si incastrano tra gli scogli o galleggiano tra i marosi. Solo la prua ancora svettava verso il cielo forse agli occhi degli Dei, a chiedere chissà cosa.
La Lusitana fu pensata, ideata e disegnata sopra un pezzo di legno da quel geniale maestro l’ascia di Torre del Greco, trapiantato a Ponza che era Domenico Porzio, nato nel 1924. Domenico era figlio di Giuseppe Porzio che la storia dice essere uno dei più bravi e geniali maestri d’ascia di tutta la costiera campana. Si racconta che il suo metro fosse l’occhio.
Domenico costruiva le sue barche nel villaggio di Santa Maria, in un accennato cantiere nel suo giardino di casa. La Lusitana fu costruita nel 1974 insieme ad altre 4 della stessa misura, tutte per gente di Ponza o turisti d’eccezione trapiantati nell’isola, che amavano la pesca sotto costa e il silenzio delle piccole baie.
Leggera con una poppa concava per andare a remi e stare sull’acqua in modo da tenere le onde e muoversi con disinvoltura ai piccoli accenni dei remi. Sfilava a remi con l’eleganza e il fascino di una modella che indossa il suo vestito preferito. Ancora oggi nei cantieri Porzio si conservano le sagome tagliate nel compensato. Impostata la chiglia, il maestro d’ascia Domenico mise una croce sulla ruota di prua che tolse solo quando tutto il fasciame fu assemblato.
La Lusitana era molto elegante, di proporzioni armoniche, la prua tagliente, la pancia morbida ed elegante stava sul mare, come se camminasse in punta di piedi. A vederla andare di poppa a remi la Lusitana era una ragazza di Ipanema. Un giorno chiesi a Domenico, ormai vecchio, cosa si ricordava di quella barca. Mi raccontò che la iniziò in un giorno infrasettimanale, ma che non era né martedì né di venerdì. Mi disse che né di Venere né di Marte si comincia l’arte. Spesso quando mi incontrava al pontile Ponza Mare, mi chiedeva come stava la Briciola, per lui era rimasta la Briciola. E quando la vedeva mi tuonava nel suo dialetto guarda che barca che ti ho fatto, sembrava che lui accarezzasse con gli occhi, e mi ripeteva sempre mi raccomando tienila bene.
La chiglia e la ruota di prua erano di quercia, il fasciame e la poppa di hiroko, legno d’Africa, ritenuto sacro per alcuni popoli. Le ordinate di gelso e olmo, la sua lunghezza era di circa 5 metri la larghezza di 1.50.
Fu costruita per la signora Simona Piersanti che soggiornava le sue estati a Ponza e il suo primo nome fu Briciola. Io me ne innamorai un giorno vedendola sfilare sotto la Torre dei Borboni e mai potevo pensare che un giorno ne potessi venire in possesso e godere della sua bellezza. Qualche anno dopo l’amico Silverio Porzio, figlio illuminato di Domenico, mi disse che la barca potevo acquistarla, la signora Simona era deceduta e non aveva eredi che la pretendevano.
Furono per me giorni di grande felicità ed entusiasmo. Gli cambiai il nome in Lusitana. E ogni anno la sua messa in acqua era una festa, un evento che vivevo con gli amici ma soprattutto con la donna che amavo.
Gli anni che vivevo a Lisbona, tutte le mattine al porto di Almada vedevo una barca che mi piaceva molto, questa barca si chiamava Lusitana. Un giorno chiesi al vecchio pescatore con cui ormai avevo instaurato un certo dialogo, se mi portava a fare un giro sulle rive intorno alle sponde del Tago. Allora decisi, qualche mese dopo a Ponza, che il nome Lusitana facesse parte del mio fato e continuasse a vivere in me per queste brevi e amate coste mediterranee, intorno alle mie isole-viscere di Ponza, Palmarola e Zannone.
Briciola divenne Lusitana e la mia amica Polina a mano gli scrisse a dritta sulla prua in corsivo il nuovo nome. Sembrava che la barca gioisse di quei momenti, lei avvolta dalla cura e dall’amore mio , degli amici, dei miei cari. Indimenticabili sono le albe a pescare fuori al Faro della Guardia o tra gli scogli delle Formiche, le sue Galapagos, e Punta Fieno. Indimenticabili i giorni con Marina e Lucia.
La Lusitana è stata amata da tutti quelli che l’hanno conosciuta e vissuta, chi ci ha navigato. La Lusitana è stata anche un letto d’amore, come quel letto scavato nell’ulivo che attese Ulisse. Sulla Lusitana hanno imparato a navigare Adriana, Lorenzo e Martina.
La commozione di tutti e la vicinanza degli amici ha alleviato il mio dolore. Per i due giorni successivi io e l’amico Giovanni Mazzella abbiamo trasferito i suoi resti nel mio rifugio dove per 20 anni mi portava e mi aspettava. Gli dei hanno deciso il luogo del suo affondamento, sotto casa.
Il 31 agosto 2018 alle 15.30 la Lusitana finiva di navigare, forse stanca, tra le braccia di 4 amici inermi davanti alla furia del destino.
La morte fulminea e indicibile della Lusitana mi lascia una sostanza, un tormento mistico. Sugli scogli taglienti una desolata solitudine ci accolse, contempliamo tutto intorno ciò che accadeva, ormai fermi e impossibilitati ad ogni azione ad ogni pensiero.
Eravamo anche noi vittime di una strega maligna, o di una lotta tra Dei capricciosi. Ancora una volta ritornava Omero e Melville a ricordare le mutabili direzione del destino, a cui nulla può la volontà dell’ uomo.
Il mare accomuna uomini e barche, isole e dei.
Tutta la notte non riuscii a dormire, pensavo disperato allo spavento continuo di quella tragedia consumata così velocemente, al terribile dell’Assoluto. Una parte di me, il sogno, il mare me l’aveva stritolata disintegrata e buttata in faccia a ricordare che la fine di ogni cosa sta sull’orizzonte che non vediamo, sull’orizzonte che siamo.
“Nel tempestoso Atlantico del mio essere, io sempre godo di una muta calma nell’intimo e, mentre pesanti pianeti di dolore incessante mi ruotano intorno, laggiù in fondo continuo a bagnarmi in un’eterna soavità di gioia.” H. Melville
http://www.h24notizie.com/2018/09/sugli-scogli-di-punta-fieno-lultimo-viaggio-della-lusitana/
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Bisogna partire
Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.
– Per andare dove, amico?
– Non lo so, ma dobbiamo andare.
Jack Kerouac
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Una tartaruga marina a Palmarola, da H24
Nuotata insieme a una tartaruga marina. Un’esperienza singolare quella vissuta da diversi bagnanti a Palmarola.
Mentre i turisti stavano facendo il bagno a riva, nei pressi della spiaggetta, tra loro ha iniziato a nuotare una ‘Caretta caretta’, che ha poi ripreso subito il largo.
Resta ora da capire la ragione che ha portato l’animale ad avvicinarsi così alla spiaggia.
Le acque delle isole pontine sono ricche di tartarughe e cetacei, a favore dei quali da anni si sta battendo, insieme alle associazioni ambientaliste, il poeta e ambientalista ponzese Antonio De Luca.
Un mese fa una caretta caretta ha nidificato sulla spiaggia di Ventotene e non si esclude che le tartarughe marine possano ora aver scelto le Ponziane anche come area dove deporre le loro uova.
Clemente Pistilli, Giornalista Gruppo Espresso-Repubblica
E non escludo che nelle spiagge di Palmarola o in alcune spiagge della costa a ponente di Ponza, la tartaruga da alcuni anni venga a deporre le uova, personalmente ne ho avvistate sia intorno agli scogli delle Formiche che alla Punta del Faro della Guardia. Questo mia convinzione è dovuta, sia alla ormai sua costante presenza, ma soprattutto a racconti e avvistamenti certi di alcune persone amiche del luogo, che preferiscono rimanere anonime per ovvi motivi. Ponza , la sua cultura ambientalista è ancora medioevale, e non si esprime come dovrebbe per la salvaguardia della sua immensa bellezza. Ma come ogni bellezza se non si cura muore.
Antonio De Luca
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da ERRI DE LUCA da La parola contraria
L’Utopia non è il traguardo ma il punto di partenza. Si immagina e si vuole realizzare un luogo che non c’è ancora.
Il nostro paese ha bisogno di rinnovarsi scrollandosi di dosso i parassiti delle corruzioni, degli interessi privati a danno delle pubbliche spese, dei privilegi.
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