di Sandro Russo
Note sulle foto a colori di Antonio De Luca
Vorrei dire, prima di ogni altra cosa, che questo è solo uno spazio per i commenti. Resta inteso che l’idea del colore espressa nelle foto è di Antonio. Le foto, è lui che le ha fatte; sue la sensibilità e le scelte. I critici e i commentatori sono quelli delle “chiacchiere dopo”.
Ciò detto, devo confessare che sono rimasto colpito da queste foto, che non avevo mai visto… E sì che Antonio lo conosco da una vita!
Di simile – che mi abbia spinto ad un analogo percorso di pensieri e associazioni – avevo visto qualcosa di Rothko, un artista americano, che peraltro Antonio mi ha detto di non conoscere!
Parlo di Mark Rothko (1903- 1970), statunitense, le cui opere ho incrociato quasi per caso, ad una Mostra al Palazzo delle Esposizioni (Roma 23 ottobre 2007 – 06 gennaio 2008), dove ero andato spinto da tutt’altri interessi (per una imponente retrospettiva dedicata a Stanley Kubrick).
Quelle bande di colori sovrapposti sono state per me una sfida alla comprensione, fino a che non ho realizzato che bisognava solo lasciarsi andare, e perdercisi dentro…
Qui di seguito, alcuni dei suoi lavori con qualche breve commento.
Mark Rothko. Three nudes; 1933-’34. National Gallery of Art; Washington D. C.
Mark Rothko. Untitled. 1948. Collection of Kate Rothko Prizel. Sulla strada dell’astrazione
Dopo un periodo figurativo, dal contenuto mitologico, figure piatte derivate dal linguaggio artistico primitivo, dal 1949 Rothko struttura i suoi dipinti in un modulo compositivo che continuerà a sviluppare negli anni successivi. Esso comprende diverse forme rettangolari allineate in senso verticale e inserite in un campo colorato.
Nel loro “Manifesto” sul New York Times (1943), Rothko e Gottlieb scrissero: “Noi siamo a favore dell’espressione semplice del pensiero complesso. Siamo per le grandi superfici, perché esse hanno un impatto non equivoco (…) …Siamo per le forme piane, perché distruggono l’illusione e rivelano la verità. Dal 1947 Rothko elimina tutti gli elementi di surrealismo o di immagini mitiche dai suoi lavori e dà la prevalenza a composizioni di forme indeterminate.
Mark Rothko, Untitled [Multiform], 1948, Collection of Kate Rothko Prizel
In questo dipinto il colore liquido imbeve la tela, lasciando bordi morbidi, indistinti, mentre sottolineature biancastre circondano le forme, come aloni.
Mark Rothko, No. 8, 1949 (National Gallery of Art, Gift of The Mark Rothko Foundation)
L’uso del colore, per cui Rothko è maggiormente apprezzato, qui raggiunge una luminosità mai ottenuta prima.
Mark Rothko. White center. 1950
In questi grandi, fluttuanti rettangoli di colore che sembrano inghiottire l’osservatore, egli esplora con rara perizia di modulazioni il potenziale espressivo dei contrasti di colore e di tonalità. Per lui, astenersi dalla rappresentazione permette la maggior chiarezza: “L’eliminazione di tutti gli ostacoli tra il pittore e l’idea e tra l’idea e l’osservatore”. Come esempi di tali ‘ostacoli’ Rohko citò: “…la memoria, la geometria, che si nutrono di generalizzazioni da cui uno potrebbe trarre delle parodie di idee (che sono fantasmi) ma mai l’idea in sé”.
Mark Rothko, Untitled [Blue, Green, and Brown], 1951- 1952
In questo dipinto i colori e la struttura non possono essere separati: le stesse forme consistono di puro colore; la loro densità determina la profondità dello strato, che fa da complemento e arricchisce la struttura verticale della composizione
Lo storico dell’arte Dore Ashton ha detto, dei dipinti di Rothko: “Le sue superfici sono vellutate, come poemi della notte”
Mark Rothko, No. 10, 1950. (Oil on canvas, 229.2 x 146.4 cm; The Museum of Modern Art, New York)
Queste forme non hanno alcuna diretta associazione con qualsivoglia esperienza visibile, ma in esse si riconosce il principio e la passione dell’organismo. Più tardi egli scrive: “L’Arte per me è un aneddoto dello spirito, ed il solo mezzo per renderne concreto il fine è il suo variabile grado di velocità e immobilità”.
Mark Rothko. Untitled. 1953, National Gallery of Art, Gift of The Mark Rothko Foundation
L’influenza di Nietzsche su Rothko suggerisce che il suo lavoro si può leggere come l’opposizione tra l’elemento ‘azionale ‘ o ‘astratto’ e quello ‘emozionale’, ‘primitivo’ o ‘tragico’ (in riferimento alla definizione di Nietzsche della polarità tra l’elemento ‘apollineo’ e ‘dionisiaco’).
Mark Rothko. Untitled. 1969, John and Mary Pappajohn, Des Moines, Iowa
Rothko ha detto: “Fin dal Rinascimento i piccoli quadri sono stati come novelle; i grandi dipinti sono come drammi, ai quali si partecipa in modo diretto”. A differenza dei minimalisti, comunque, Rothko non ha mai abbandonato la convinzione che l’arte astratta può essere sentita in termini espressivi dal punto di vista emozionale.
Intanto con gli anni e con la malattia, i dipinti di Rothko divengono progressivamente più scuri, specie al confronto con la luminosità dei precedenti…
Mark Rothko, Untitled, 1968, Private Collection
Malato di cuore e depresso, Rothko si è suicidato nel 1970. A quel tempo era stato chiaramente riconosciuto, in America come in Europa, il suo ruolo guida nello sviluppo dell’arte non figurativa. I suoi vibranti, disincarnati veli di colore confermano il potere della pittura soggettiva nel convogliare intensi contenuti emozionali e spirituali.
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Oltre che a Rothko, un altro aspetto delle foto di Antonio mi ha portato ad associarle a Lisbona.
So che la città e la cultura lusitana, i suoi poeti sono tra le passioni del Nostro, quindi mi aggancio ad una sua citazione di Wim Wenders (trovata a margine di una delle foto dell’album): “Ci sono paesaggi che reclamano una storia”, e al film di Wenders, Lisbon Story (1995).
Lisbon Story è un film quasi senza trama, di quelli ‘alla Wim Wenders’; come l’altro suo film Nel corso del tempo (1976); dove la storia si costruisce da sola durante in viaggio, viene da incontri occasionali e/o stimoli estemporanei.
In Lisbon Story tutto comincia con una cartolina che giunge da Lisbona a Francoforte: mittente Friedrich Monroe, regista; destinatario Phillip Winter, amico e tecnico del suono. «Caro Phil. Non posso continuare, S.O.S.! Vieni a Lisbona con tutta la tua attrezzatura… Niente telefono, niente fax, scrivi !».
Phillip si mette in moto e parte alla volta di Lisbona alla ricerca dell’amico, ma non lo trova nella sua casa, lo cerca invano… anche se riesce a seguirne le tracce dai materiali che ha lasciato e attraverso altri incontri…
Solo dopo oltre tre settimane, casualmente, Phillip ritrova Friedrich; ma l’uomo è in preda a una grottesca ossessione: ha ripreso centinaia di ore di pellicola della città di Lisbona, puntando la macchina dietro le spalle per non vedere le immagini mentre gira. È arrivato alla conclusione che l’occhio del fotografo rovina le immagini, le rende false e contaminate. Friedrich appare ormai perduto in un nichilismo cinematografico che appare senza vie d’uscita, ma Phillip gli rinnoverà la voglia e il piacere di costruire insieme delle immagini in movimento.
Cosa, delle immagini di Antonio, mi ha ricordato questo film, a parte alcune citazioni da Wenders nel suo album di foto e il particolare della cartolina di convocazione, che potrebbe aver scritto lui: lo stile è quello!
Me lo hanno ricordato le scene in cui il regista va in giro per Lisbona con la telecamera montata dietro le sue spalle, che guarda (e registra) senza il suo intervento. E la conclusione,quando all’esame dell’enorme quantità di materiale girato il responso è sconfortante: è tutta roba da buttare. La realtà richiede un senso! …Che solo l’occhio dell’Autore delle immagini può dare.
Ho pensato che il percorso e l’approdo, anche per le foto di Antonio, siano stati analoghi…
E ancora… Nel film, Wenders riscopre i colori caldi e sensuali della civiltà mediterranea – e questo di nuovo riporta a quelle foto – il vecchio centro del mondo, il luogo dove tutti vorrebbero vivere. Ecco i colori forti, pastosi, non solo della Lisbona vista e cercata con tutte le forze, ma anche degli interni, alla ricerca di quello che il cinema ancora non può ‘dare’ direttamente, e cioè i sapori, gli odori della realtà. «Cambiano le lingue – dice Phillip – la musica, le notizie sono diverse… ma i panorami parlano lo stesso linguaggio, raccontano tutti le stesse storie; di un vecchio continente pieno delle sue guerre e delle sue tregue…».
“Tra suoni immagini colori sguardi e commozioni, Wenders comunica ‘totalmente’ il suo cinema, fatto di tutti i sensi possibili, mixati in un concentrato di riflessione, teoria, emozione, passione, deliberata dichiarazione d’amore, per il cinema, per la vita” [da Federico Chiacchiari, di Sentieri Selvaggi].
Sandro Russo