Tratto da LETTERATURA E PENSIERO Rivista trimestrale di Scienze Umane
di Maria Gargotta
Sono stata molto felice di far parte, il 2 agosto, del parterre per la presentazione di una silloge di poesie di Antonio De Luca dal titolo intrigante Eros (Graus editore, 2022). La sede dell’evento, in cui le parole critiche si sono congiunte magicamente alle parole poetiche, lette non solo da attori locali ma anche dallo stesso poeta, è l’isola di Ponza.
Comincio col dire di sentirmi una privilegiata, per aver avuto la fortuna di conoscere questo libro in fieri, nel suo farsi, nel suo divenire, dal momento che Antonio De Luca mi inviava le poesie man mano che le componeva.
Per la verità, più che parlare di un testo di poesie, si potrebbe parlare di un’unica, lunga poesia, strettamente intrecciata anche con le precedenti raccolte, con Navigare la rotta, con Adespota, scritte insieme all’amico Andrea Simi; un unico lungo racconto, dal ritmo greco che, senza punteggiatura, ci rimanda da tempi lontani l’eco dei versi greci, cantati dal Poeta Omero, il poeta per eccellenza.
Un lungo racconto, un’unica voce, anche se affiancata da tante altre voci, che fanno compagnia all’opera sempre solitaria del poeta; voci che De Luca, il quale di letture di ogni luogo e di ogni tempo si è nutrito, ospita, assorbe nel corpo dei suoi versi, nel segno di un comune sentire, come testimoni viventi della sua prospettiva, quella in cui lo ha posto Eros, afflato vitale da sempre presente nella sua storia di uomo e di poeta.
Dunque, Eros, un titolo suggestivo, che si potrebbe però prestare a qualche equivoco. Eros, il “dio tra gli immortali il più bello”, come cita il poeta da Esiodo; il dio, Dominus potente e terribile, come lo definisce Dante nella Vita Nuova, può indurre a pensare solo all’amore sensuale, che, comunque, in queste poesie non manca, anzi di sensualità morbida e flessuosa è avvolto ogni verso. Tuttavia, il discorso è molto più ampio e articolato di come può apparire dal titolo, perché “è lui, il dio, che muove il Fato”, dice il poeta; è lui che “in un nuovo ordine del mondo mi pose”.
Amore che cambia, dunque, le prospettive di una vita fuori ed oltre ogni ordine; una vita, quale è quella di un poeta, dominata dal caos, dalla follia creativa “che salva”, che dona libertà al poeta, che è e “rimane estraneo al mondo”. È, dunque, questo il dio, che attraversa i versi di De Luca, divenendo l’Aleph, l’inizio e la fine, l’Uno, la fonte e l’approdo. Per raccontarci questa eccezionale esperienza di vita, perché sempre eccezionale è la vita toccata dalla poesia, De Luca pone al centro, ormai i lettori delle sue poesie lo sanno bene, il Mito. Cerchiamo di intenderci: il mito non è solo una bella favola, che gli antichi amavano inventare e raccontare. Il Mito è rivelatore di verità profonde, dell’essenza dell’Essere; ma non quelle verità relative, di tipo pirandelliano, che il Novecento ci ha insegnato a conoscere e che ognuno di noi crede di possedere; il Mito è la Verità, la sapienza antica, che ci è stata tramandata dal mondo greco, che ci appartiene profondamente, perché è il nostro mondo mediterraneo, diventato sangue, respiro, per tutti coloro che, come De Luca, hanno compiuto studi classici, che si sono nutriti di quell’universo, attraverso la lettura dei suoi poeti e dei suoi filosofi. E, allora, il mito diventa paesaggio dell’anima, un paesaggio primordiale, primitivo, dove il mare, l’ulivo, la vite, le greggi insieme alle sacre parole poetiche diventano pane quotidiano, il luogo non-luogo privilegiato, in cui il poeta vive, ripeto, “estraneo sostanzialmente al mondo”.
Ma c’è di più. Questa di Antonio De Luca è anche una poesia dall’anima profondamente femminile. Quando alcuni anni fa, sempre a Ponza Paolo Mieli mi chiese se ritenevo che la poesia di Antonio De Luca fosse una poesia al femminile, risposi d’istinto sì, ma in realtà ero un po’ spiazzata, perché, pur intuendo l’anima femminile di essa, non avevo raccolto elementi sufficienti per spiegarlo. Leggendo e rileggendo queste poesie posso invece oggi ben dire che il femminile di queste poesie sta nella loro fluidità, “non sono io, io divenni un altro e un altro ancora”; una poesia dunque ondosa, che ripropone i ritmi del mare, sempre uguali ma sempre diversi, laddove, credo, il maschile è la roccia, lo scoglio, più restio ai mutamenti, alla flessibilità del divenire. In questi versi, più che in altri, ritorna l’infanzia, la casa “aperta a tutti”, il padre, la madre, le fonti della vita, addirittura il nonno, e a un certo punto il poeta annuncia “io sono un poeta di ieri, di epoche passate”, e non solo perché canta il mondo dell’infanzia, ma più ampiamente perché canta l’infanzia del mondo, aedo di un universo che qualcuno banalmente chiamerebbe defunto, e che invece è più vitale che mai, per chi sa ascoltarne ancora la voce.
Come non cogliere, allora, il sentimento dominante della nostalgia, di un passato sempre presente, di un’Itaca che sempre attende il ritorno? Itaca, Ponza, la terra dei nonni, l’Isola, distaccata e lontana dalla terraferma, ma approdo continuo, ombelico del mondo, che respira un oltre, perché “sopra le isole non si sta con il reale”.
La poesia di De Luca è poesia essenziale, come recitano nel retro della copertina, le parole di Predrag; poesie in cui non ci sono “smorfie letterarie”, non c’è superfluo, e non solo perché la poesia classica, greca in particolare, era essenzialmente chiarezza, poesia essenziale; c’è anche un altro elemento, che appartiene profondamente a questi versi: c’è l’uomo di mare, che non ama le smancerie, che, apparentemente ruvido, ama l’essenza, non l’apparenza, mai la superfluità.
Infine, un’ultima riflessione: poesia esistenziale soltanto questa di Antonio De Luca? Apparentemente sì, il poeta racconta di sé, attraverso Odisseo, in cui si identifica; racconta l’uomo, quello inquieto, positivo, che vuole conoscere, viaggiare, ma, a ben leggere, questa poesia di mare ci restituisce il Mediterraneo nella sua vera, grande natura, la sua civiltà di “casa aperta a tutti”, ci restituisce, attraverso il mito, l’uomo mediterraneo nei suoi valori essenziali, nella sua dignità. E allora, c’è molto più di una semplice esistenzialità, c’è la sotterranea proposta di una nuova umanità; una nuova prospettiva, quella portata dal vento di Eros, “tra gli dei immortali il più bello”, c’è il riconoscimento di una antica, nuova bellezza per un mondo che si disumanizza sempre di più. Molto, molto più di una poesia esistenziale. Poesia dai veri valori umani e civili. Ponza ha trovato il suo aedo, che le consegna la sua identità, il suo posto inequivocabile nel Mediterraneo, mare antico dalle mille voci, dalle mille culture. Il poeta ne raccoglie l’eco e ce la tramanda, puro e naturale, antico e nuovo, memoria e testimone di un futuro forte delle sue trovate radici.
Maria Gargotta