Mediterraneo, isola di Palmarola storie di uomini.
Il Mediterraneo come mi diceva Predrag Matvejevic è fatto di grandi storie. Ma soprattutto anche di piccole storie. Piccole storie che hanno dato il loro immenso valore alla formazione di questa grande umanità mediterranea. Piccole storie che hanno fatto una grande civiltà. Una umanità che ha popolato rive e isole. Che ha costruito la civiltà mediterranea.
La cultura mediterranea. A cui apparteniamo degni e fieri.
Passeggiando qualche sera fa per il porto di Ponza con l’amico Antonio Aversano, e apprezzando la sua incommensurabile bellezza architettonica, nata dall’ingegno di Antonio Winspeare, ingegnere del tempo borbonico, ma anche evidenziando, nostro malgrado, le brutture e la barbaria di questa modernità, ho chiesto ad Antonio di raccontare qualche storia vecchia del padre e della sua famiglia durante la seconda guerra e subito dopo gli anni delle difficoltà.
Storie di una famiglia, gli Aversano, che viveva gran parte dell’anno nella selvaggia, disabitata e primitiva Palmarola. Strappando alla terra e al mare con la dura fatica, una dignitosa sopravvivenza, tra silenzi, solitudini e abbandoni. E soprattutto tanta tanta fatica. Ma anche tanta tanta libertà.
Una vita di sacrifici che rendeva l’uomo stanco ma felice e forte di affrontare un’esistenza su isole disabitate. Una vita dura e difficile, ma che ha dato all’uomo le radici di un’evoluzione. Una vita direi anche alquanto comunista nei valori e termini sociali.
La vita viene dal mare. La cultura viene dal mare. L’amore viene dal mare.
Proprio della cultura ellenistica era l’uomo che si avventurava a scoprire e vivere nuove rive e nuove isole, fondando città e civiltà.
A loro insaputa gli Aversano, come gli Aprea e gli Amalfitano, provenienti da Ponza, l’isola maggiore delle ponziane, erano ereditari di una emigrazione, anche se temporanea, che partiva dagli albori della civiltà mediterranea, la civiltà precedente a quella omerica.
Siamo negli anni ’40, quando gli Aversano della contrada di Sopra Giancos, vivono, gran parte dell’anno, sull’isola di Palmarola in località Grotta dell’acqua. Le maggiori alture dell’isola. Un luogo in cui si ritorna indietro nel tempo.
La parte alta dell’isola dove è possibile coltivare vigneti, ortaggi e pascolare bestiame.
Sulla riva hanno anche una piccola barca da pesca. Vivono in case-grotte e qui trascorrono gran parte dell’anno. Circa dieci mesi.
Una vita sull’isola di Palmarola vissuta di cose essenziali. Qui non esiste il superfluo, l’inutile. Le isole sono luoghi che custodiscono l’essere primitivo, l’origine. Nelle isole tutto si ama. Sulle isole o ami e condividi o sei un perdente.
Arcangelo Aversano e Luigi Aversano li conobbi da ragazzo. E ho dei piacevoli ricordi di due uomini di statura e virtù superiori. Gente venuta da stirpe omerica, uomini della nave Argo, uomini di Giasone.
Loro con le famiglie, a Palmarola avevano fondato delle vere piccole comunità, dedite alla coltivazione della vigna. Biancolella e Guarnaccia importate direttamente da Ischia. Ma soprattutto legumi. A Palmarola si vive non si sopravvive.
Con piccole barche a remi, trasportavano le merci a Capobianco a Ponza, dove avevano una piccola grotta scavata nel tufo bianco.
Capobianco nel mio immaginario acquista una dimensione dell’Oltre, in quanto Federico Fellini ci girò molte scene del Satyricon.
Da Capobianco la merce raggiungeva a spalla la località Faraglioni dove c’era la miniera di Perlite, e da lì con gli asini arrivava alle loro case Sopra Giancos.
A Palmarola le famiglie per mantenersi allevavano conigli, galline, capre, qualche mucca, e poi nelle stagioni propizie si praticava la cacciagione.
Nella pesca, in un mare estremamente ricco, si praticava la pesca delle aragoste e seppie. Queste venivano conservate nelle nasse tenute sotto costa, e poi mandate a Ponza e di qui a Marsiglia con i bastimenti dell’epoca.
Ogni giorno la barca veniva tirata a terra, proprio come ho visto sulle coste dell’Africa occidentale.
Luigi mi raccontava che da Palmarola trasportavano, sempre su piccole barche a remi, anche le fascine che venivano utilizzate dai fornai di Ponza.
Spesso sottocosta ci stavano anche degli affondamenti, dovuti a mareggiate improvvise e soprattutto alla precarietà delle barche.
I contadini di Punta Fieno e le barche dalla spiaggia di Chiaia di Luna andavano in loro soccorso. Venivano recuperati gli uomini e le fascine e qualche volta anche le piccole barche.
Durante la guerra e soprattutto durante lo sbarco di Anzio, la vita a Palmarola si arricchì di inaspettate avventure. Dando agli uomini quella dimensione, che solo la tragicità degli eventi può dare. Così gli uomini con la loro dignità, il coraggio e i valori, danno alla storia il supremo sapere. Danno lustro e cultura all’uomo e alla loro vita. Da Palmarola questa gente, mogli mariti e figli, assistono ai bombardamenti sulle rive di Anzio.
E qualche volta anch’essi vengono mitragliati da aerei tedeschi mentre fuggono nelle grotte dove si ricovera il bestiame.
Durante un giorno di pesca a sud dell’isola, il mare era avvolto in una fitta nebbia e assordante silenzio. Quando Luigi e Arcangelo sentono delle grida straniere venire dal quiete mare di acqua e di nebbia. Loro andarono incontro a queste grida di aiuto quando comparvero due militari tedeschi naufraghi di un aereo abbattuto dagli alleati. Questi, piangendo di disperazione, ormai allo stremo chiedevano aiuto.
I quattro uomini stavano sulla piccola barca, non si chiedevano chi fosse il nemico e cosa potesse accadere. I quattro uomini, figli di un Dio superiore, amavano la vita. Fratelli di una sola razza si strinsero tra le piccole murate di quella barchetta.
Luigi e Arcangelo a remi, da Palmarola portarono i due naufraghi a Ponza, dopo averli assistiti e dato loro da mangiare.
Ogni giorno nelle mattine di primavera i due andavano a pescare. Spesso sulle rive, gli abitanti di Palmarola trovavano scatole di cibi e oggetti vari provenienti dalle rive di Anzio. Che la corrente aveva trasportato.
Donne e bambini perlustravano le rive dell’isola a caccia di questi bottini. Ma spesso si incontravano anche resti umani. Allora si chiamava qualche pescatore di passaggio che provvedeva a trasportare questi sfortunati a Ponza.
Il mio amico Antonio, figlio di Luigi e nipote di Arcangelo, da bambino ha vissuto la sua Palmarola. Dove si dava da fare ad aiutare la famiglia nelle varie attività. Durante i mesi di giugno e luglio bisognava fare una precisa lotta ai topi, altrimenti metà del raccolto, soprattutto l’uva andava perduto.
Antonio mi racconta che spesso veniva ripreso dal padre, in quanto a pesca doveva prendere solo il necessario alla sopravvivenza della famiglia. A Palmarola, non esistevano frigoriferi, telefoni e radio, né corrente elettrica. E tutta la vita avveniva nello scorrere del giorno e delle sue ore. L’alba, le ore pomeridiane, la sera, la notte.
Si andava sugli scogli, l’attesa poteva durare anche giorni, per avvistare un pescatore che li portasse a Ponza.
Mentre gli uomini invecchiano e le loro forze vengono a mancare, lentamente gli Aversano abbandonano Palmarola.
I più giovani emigrano in America. Arcangelo a Ponza si dà all’allevamento di mucche. Luigi si imbarca, mentre Antonio va a studiare a Procida.
Con Arcangelo e la moglie Lucia Silvestri ebbi un’amicizia che si protrasse fino alla fine dei loro anni. Ad ogni parto di un vitellino mi chiamavano affinché potessi assistere e fotografare l’evento. C’era sempre una grande festa nella stalla.
Io vivevo quel mondo virgiliano che mi nutriva più di ogni altra cosa e dentro di me il tempo e gli eventi portavano una vita di poesia e amore per la natura e il suo scorrere delle stagioni.
Col tempo a Palmarola, sulla costa di ponente, dove sta la spiaggia, la famiglia ponzese Di Scala-Parisi aprì un piccolo luogo di ristoro per navigatori solitari e gente di passaggio. Allora la vita di Palmarola si trasferì da questo versante. E le comunicazioni con Ponza partivano dalla spiaggia. E si fecero più frequenti.
La motobarca Santa Rita fu la prima a fare la spola tra Palmarola e Ponza. Aurelio Conte fu il primo comandante della Santa Rita, ma presto lo sostituì per motivi di età Pompeo Di Giovanni. Persona molto perbene, che ho personalmente conosciuto.
La Santa Rita aveva anche un compito fuori dall’obbligo che gli era di pertinenza. Portare a Palmarola e poi la sera riportarlo a Ponza, il primo e il più grande pescatore subacqueo che Ponza abbia avuto. Un certo Gavino, che ben presto diventò una leggenda per tutti i giovani ponzesi e non solo.
Alla famiglia Aversano apparteneva Maria Candida Romano che a Palmarola viveva da sola. Era rimasta vedova. E il figlio le era morto nell’affondamento del piroscafo Santa Lucia a Ventotene. Mitragliato dagli inglesi durante la guerra.
Lei viveva a Palmarola in completo isolamento e autogestione. Antonio quando finiva la scuola, da piccolo spesso veniva mandato a fare compagnia alla zia Maria Candida.
Negli anni ’70 Arcangelo Aversano non può fare a meno della sua Palmarola. Ormai anziano, ma sempre con una volontà e forza interiore, tipica degli uomini che la vita l’hanno faticata, si trasferisce di nuovo a Palmarola.
Ci vive per pochi mesi, durante la stagione della caccia. Si sparge la voce che Arcangelo è ritornato. Il mito è tornato, resiste.
La gente, soprattutto i cacciatori e uomini solitari lo vanno a trovare. La sua fama di uomo buono e accogliente, esce dall’isola e arriva in tutta Italia.
Ora da nord a sud dell’Italia, i cacciatori e non solo vogliono andare a vivere con Arcangelo. Dove si vive di caccia, di pesca e di una vita frugale. Ma libera e immensamente dentro una natura selvaggia. E poi Palmarola offre grandi battute di caccia, soprattutto di tortore, e grandi silenzi.
Ad Arcangelo dava una mano la nipote Maria, figlia di Luigi e sorella di Antonio, nella gestione di questa vita provvisoria.
Un giorno dopo un lungo viaggio di fatiche e avventure, sbarca a notte fonda inaspettatamente, Enrico Fasola da Terni. Mezzo viaggiatore avventuriero e quasi naufrago. Ma accanito cacciatore.
Arcangelo accoglie in una grotta Enrico. Gli dà da mangiare e lo preserva dall’incuria del viaggio avventuroso. Al mattino gli occhi di Maria ed Enrico si incontrano. Nasce la più bella storia d’amore che Palmarola abbia visto nascere.
La storia di Maria ed Enrico ormai anziani vive tutt’ora. Storie mediterranee in una piccola isola, storie di vita. Fatiche, epicureismo, libertà e avventura. Gioia e dolore, vita e morte.
E soprattutto grandi amori.
Così ancora per sempre ritorniamo ad Omero. Il grande capo. Dopo di lui niente di nuovo, hanno scritto a ragione i grandi della letteratura.
Nella mia Odissea ci ho messo anche la vecchia Palmarola. Quella pura e primitiva. l’isola degli uomini buoni, l’isola dei Feaci. E naturalmente la storia degli Aversano. Arcangelo e Luigi uomini omerici. Venivano dalle mura di Troia, da Micene. Hanno viaggiato nella grande civiltà mediterranea. Hanno dato lustro, umanità e saggezza ad un’isola, che di allora gli rimane solo il nome. Che i Proci dell’oggi hanno divorato. Purtroppo non arrivò un Ulisse a difenderla.
Dico ad Antonio mentre finisce il suo racconto: Il fatto che noi siamo affascinati e interessati a storie di uomini che hanno vissuto molto della loro vita in solitudine, come anche una scelta personale, è perché riteniamo, come scriveva Fabrizio De André, che questo modo di vivere la solitudine, sia l’unico stato mentale, spirituale e fisico in cui riusciamo ancora ad ottenere un contatto con l’Assoluto. Fuori e dentro di noi stessi.
Lontani dalla realtà nemica dell’uomo.
La solitudine come scelta, e non come isolamento che è sinonimo di abbandono.
Qualcosa che decidono gli altri. Noi che viviamo per isole abbiamo bisogno di un Assoluto fuori dalle mode religiose. Ed ecco allora, che ancora l’eterno Omero giunge a soccorrerci.
La storia si fa favola, si fa Mito, e nutre quella parte di noi rimasta bambino. Ma che serve assolutamente a vivere. Senza si scompare.
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