Sugli scogli di Punta Fieno l’ultimo viaggio della Lusitana

 

Da H24 Notizie:
Riceviamo dal poeta ponzese Antonio De Luca e pubblichiamo:

L’ultimo viaggio della LUSITANA

Il mare nero si gonfiava, si gonfiava senza posa. H. MELVILLE

Avevo invitato nel mio rifugio letterario A JANGADA DE PEDRA a Punta Fieno il direttore di un importante quotidiano nazionale, Oreste Romagnolo, chef creativo di cucina mediterranea, sua moglie Valentina, e la caporedattrice di una nota rivista, e infine l’amico di viaggio Pietro D’Andrea. Pietro festeggiava il suo compleanno quel giorno.

La giornata al mattino si presentava serena e tranquilla e anche il mare non dava segnali di scompigli improvvisi. Dopo che avevo fatto il mio solito giro tra le vigne per accertare dello stato di maturazione dell’uva, iniziarono dal mare ad arrivare gli ospiti, dopo aver dato fonda al largo le loro barche.

La mia bianca barchetta l’avevo ormeggiata come al solito tra i due scogli dell’approdo, come faccio da sempre. Naturalmente qui per avere un ormeggio sicuro, il mare deve essere totalmente calmo, e quel giorno era totalmente calmo.

Avevo organizzato questo piccolo simposio per incontrare degli amici ma soprattutto per parlare di cucina mediterranea, di giornalismo e di poesia, ma anche della mia prossima uscita editoriale, Sandro Pertini la mia Ponza. Già l’importante quotidiano nazionale mi aveva dedicato una presentazione a il Falegname e il partigiano, la storia di un incontro casuale con Sandro Pertini. Avevo allora 15 anni, il Presidente passeggiava da solo sotto casa mia, la sua strada da confinato politico.

Mentre gli ospiti girano tra le vigne e la casa, Oreste si cementava in una creazione a base di aragoste. Io in un vermicelli con le cozze. Pietro va in cantina a prendere qualche bottiglia di Utopia per il benvenuto alla sacralità dell’ ospite. Il frugale pranzo inizia tra racconti e storie di vita quotidiana.

Al direttore chiedo del filosofo francese Jacques Attali, che aveva intervistato a Torino alla Fiera internazionale del libro, dove ero presente. Le intransigenti posizioni di Attali e della politica Francese su questo tipo di Europa mi interessavano. Considerando che un’altra Europa, qui a Ponza e Ventotene i padri fondatori pensavano e sognavano. Attali era il consigliere di Francois Mitterrand all’Eliseo, e in quegli anni le sue posizioni erano diverse.

A Oreste chiedo di quei piatti che mi fece mangiare da Eataly a Roma, che oltre alla loro squisitezza, mi diedero grandi emozioni gustativi e olfattive, oltre per l’accurato design. La bretella di orata marinata su agretto di pomodoro, la patata liquida con trito di gamberi e caviale, e la zuppa di ricci, oltre ad essere sublimi invenzioni, li sentivo piatti di una profonda sensualità, una sessualità gastronomica.

A tavola tra il gustare le varie squisitezze mediterranee e i dialoghi liberi e sinceri, trascorriamo qualche ora. Valentina ogni tanto si affacciava sul mare per vedere l’arrivo della loro figlia Alice. Intanto ci avvisava che notava un certo moto ondoso silenzioso che prima non c’era.

Io facevo notare a tutti l’assenza totale di vento, e una appena accennata brezza da ponente. E questo stato mi turbava con l’avanzare del tempo. Ma presto mi rendo conto che le onde arrivano da libeccio e si stanno ingrossando a dismisura. La barca così come era ormeggiata, non stava più bene e mi preoccupavo.

Provo a telefonare all’amico Comandante Silverio Zecca sull’aliscafo della Laziomar Monte Gargano, che naviga sulla rotta Formia Ponza. Silverio mi conferma che al largo dell’Isola già monta una grossa piena di Libeccio con onde alte 2 metri.

Dissi allora agli ospiti che dovevamo affrettare il ritorno e la discesa alla scogliera. Prendere le barche e fare rotta di ritorno. Ma nel giro di qualche minuto Valentina ci dice che una onda più grande delle altre ha portato la Lusitana sugli scogli.

Noto che la barca stava parallela al mare, ed era già abbastanza incastrata tra i primi scogli della battigia. Immediatamente lasciamo il tutto, ed io Oreste, il direttore e Pietro corriamo in suo soccorso. Appena arriviamo ci rendiamo conto delle difficoltà e della situazione di estremo pericolo, il mare da libeccio si ingrossava a vista d’occhio.

Io e Pietro e il direttore alziamo la prua tra le braccia, come un vecchio morente, e la mettiamo al mare, mentre Oreste la spingeva al largo. Meglio affondarla e poi trainarla, che vederla tra gli scogli in mille pezzi.

Sembrava che stavamo vincendo la nostra battaglia, quando un’altra onda alta e potente ci sbatte a noi quattro e la stessa Lusitana sugli scogli ancora più su. Iniziamo a renderci conto che la situazione precipitava irrimediabilmente.

Ognuno di noi aveva delle ferite. Ogni onda sempre più grossa, vorace e mortale sbatteva le piccole e fragili murate contro gli aguzzi e taglienti scogli. Ogni nostro tentativo risultava vano davanti a quella forza crescente. La barca dopo un po’ iniziò a rompersi nel fasciale laterale, noi ci allontanammo, era diventato pericoloso stare vicino. Un’altra onda sempre più grande, la spezzo in due, e le altre onde crescenti, capovolsero la prua, la chiglia guardava il cielo, come a imprecare il destino. Altre onde la flagellavano e la ruotavano su stessa, la chiglia a prua si infilò tra gli scogli e la parte poppiera rimase alquanto ferma alle feroci onde. La fiancata di dritta il mare la rendeva a pezzi, la sbriciolava, mentre la prua, prima veniva sollevata sulle onde e poi sbattuta con inaudita violenza sugli scogli anch’essa frantumandosi. La prua rimaneva sulla cresta dell’onda, come se una mano la lanciasse di continuo sugli scogli, affinché prima finisse il tormento, il respiro, la vita.

Cercammo di recuperare le dotazioni di bordo e le mie attrezzature da sub, la cuscineria e tutto quanto le onde ci restituivano. Il mare dava l’impressione quasi a disprezzare la nostra presenza. Onde come Moby Dick, che attendono la morte.

La morte davanti agli uomini per ricordare la nostra fragilità e inutile volontà davanti al destino, alla sfida. La Lusitana come la Essex, noi come Owen Chase e il suo equipaggio che attendono l’annientamento completo della nave, la distruzione, la fine. Stavamo silenziosi atterriti dalla imprevedibilità e dalla tempestività degli eventi, dalla velocità del destino, che spesso alla mente umana non permette alcuna ragione.

Oreste e il direttore senza parole, Pietro il suo volto bianco, io non facevo altro che gridare era questo il suo destino come un mantra, come una litania. Parlavo da solo incapace di pensare, incapace di versare lacrime. Tutto mi tenevo dentro, la morte di una barca tanto amata mi trascinava con lei nell’abisso. Il dramma non mi dava tempo a pensare, non potevo, non dovevo pensare.

Il mare ci buttava addosso i suoi relitti come a schiaffeggiare, ci buttava addosso quello che amavo, a ricordare la caducità della vita, il nostro essere Nulla davanti al destino. L’uomo non ha domini, tutto è provvisorio.

Nel giro di 10 minuti il dramma era completato, la Lusitana nella sua elegante e leggendaria forma non esisteva più. Pezzi del suo bianco scafo si incastrano tra gli scogli o galleggiano tra i marosi. Solo la prua ancora svettava verso il cielo forse agli occhi degli Dei, a chiedere chissà cosa.

La Lusitana fu pensata, ideata e disegnata sopra un pezzo di legno da quel geniale maestro l’ascia di Torre del Greco, trapiantato a Ponza che era Domenico Porzio, nato nel 1924. Domenico era figlio di Giuseppe Porzio che la storia dice essere uno dei più bravi e geniali maestri d’ascia di tutta la costiera campana. Si racconta che il suo metro fosse l’occhio.

Domenico costruiva le sue barche nel villaggio di Santa Maria, in un accennato cantiere nel suo giardino di casa. La Lusitana fu costruita nel 1974 insieme ad altre 4 della stessa misura, tutte per gente di Ponza o turisti d’eccezione trapiantati nell’isola, che amavano la pesca sotto costa e il silenzio delle piccole baie.

Leggera con una poppa concava per andare a remi e stare sull’acqua in modo da tenere le onde e muoversi con disinvoltura ai piccoli accenni dei remi. Sfilava a remi con l’eleganza e il fascino di una modella che indossa il suo vestito preferito. Ancora oggi nei cantieri Porzio si conservano le sagome tagliate nel compensato. Impostata la chiglia, il maestro d’ascia Domenico mise una croce sulla ruota di prua che tolse solo quando tutto il fasciame fu assemblato.

La Lusitana era molto elegante, di proporzioni armoniche, la prua tagliente, la pancia morbida ed elegante stava sul mare, come se camminasse in punta di piedi. A vederla andare di poppa a remi la Lusitana era una ragazza di Ipanema. Un giorno chiesi a Domenico, ormai vecchio, cosa si ricordava di quella barca. Mi raccontò che la iniziò in un giorno infrasettimanale, ma che non era né martedì né di venerdì. Mi disse che né di Venere né di Marte si comincia l’arte. Spesso quando mi incontrava al pontile Ponza Mare, mi chiedeva come stava la Briciola, per lui era rimasta la Briciola. E quando la vedeva mi tuonava nel suo dialetto guarda che barca che ti ho fatto, sembrava che lui accarezzasse con gli occhi, e mi ripeteva sempre mi raccomando tienila bene.

La chiglia e la ruota di prua erano di quercia, il fasciame e la poppa di hiroko, legno d’Africa, ritenuto sacro per alcuni popoli. Le ordinate di gelso e olmo, la sua lunghezza era di circa 5 metri la larghezza di 1.50.

Fu costruita per la signora Simona Piersanti che soggiornava le sue estati a Ponza e il suo primo nome fu Briciola. Io me ne innamorai un giorno vedendola sfilare sotto la Torre dei Borboni e mai potevo pensare che un giorno ne potessi venire in possesso e godere della sua bellezza. Qualche anno dopo l’amico Silverio Porzio, figlio illuminato di Domenico, mi disse che la barca potevo acquistarla, la signora Simona era deceduta e non aveva eredi che la pretendevano.

Furono per me giorni di grande felicità ed entusiasmo. Gli cambiai il nome in Lusitana. E ogni anno la sua messa in acqua era una festa, un evento che vivevo con gli amici ma soprattutto con la donna che amavo.

Gli anni che vivevo a Lisbona, tutte le mattine al porto di Almada vedevo una barca che mi piaceva molto, questa barca si chiamava Lusitana. Un giorno chiesi al vecchio pescatore con cui ormai avevo instaurato un certo dialogo, se mi portava a fare un giro sulle rive intorno alle sponde del Tago. Allora decisi, qualche mese dopo a Ponza, che il nome Lusitana facesse parte del mio fato e continuasse a vivere in me per queste brevi e amate coste mediterranee, intorno alle mie isole-viscere di Ponza, Palmarola e Zannone.

Briciola divenne Lusitana e la mia amica Polina a mano gli scrisse a dritta sulla prua in corsivo il nuovo nome. Sembrava che la barca gioisse di quei momenti, lei avvolta dalla cura e dall’amore mio , degli amici, dei miei cari. Indimenticabili sono le albe a pescare fuori al Faro della Guardia o tra gli scogli delle Formiche, le sue Galapagos, e Punta Fieno. Indimenticabili i giorni con Marina e Lucia.

La Lusitana è stata amata da tutti quelli che l’hanno conosciuta e vissuta, chi ci ha navigato. La Lusitana è stata anche un letto d’amore, come quel letto scavato nell’ulivo che attese Ulisse. Sulla Lusitana hanno imparato a navigare Adriana, Lorenzo e Martina.

La commozione di tutti e la vicinanza degli amici ha alleviato il mio dolore. Per i due giorni successivi io e l’amico Giovanni Mazzella abbiamo trasferito i suoi resti nel mio rifugio dove per 20 anni mi portava e mi aspettava. Gli dei hanno deciso il luogo del suo affondamento, sotto casa.

Il 31 agosto 2018 alle 15.30 la Lusitana finiva di navigare, forse stanca, tra le braccia di 4 amici inermi davanti alla furia del destino.

La morte fulminea e indicibile della Lusitana mi lascia una sostanza, un tormento mistico. Sugli scogli taglienti una desolata solitudine ci accolse, contempliamo tutto intorno ciò che accadeva, ormai fermi e impossibilitati ad ogni azione ad ogni pensiero.

Eravamo anche noi vittime di una strega maligna, o di una lotta tra Dei capricciosi. Ancora una volta ritornava Omero e Melville a ricordare le mutabili direzione del destino, a cui nulla può la volontà dell’ uomo.

Il mare accomuna uomini e barche, isole e dei.

Tutta la notte non riuscii a dormire, pensavo disperato allo spavento continuo di quella tragedia consumata così velocemente, al terribile dell’Assoluto. Una parte di me, il sogno, il mare me l’aveva stritolata disintegrata e buttata in faccia a ricordare che la fine di ogni cosa sta sull’orizzonte che non vediamo, sull’orizzonte che siamo.

“Nel tempestoso Atlantico del mio essere, io sempre godo di una muta calma nell’intimo e, mentre pesanti pianeti di dolore incessante mi ruotano intorno, laggiù in fondo continuo a bagnarmi in un’eterna soavità di gioia.” H. Melville

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